Era l’8 giugno 1980, una domenica qualunque d’inizio estate, quando una macchina sbandò lungo la Fossano-Savona. A bordo, tra gli altri, c’era Bruno Salvadori, giovane e già storico segretario del Partito Valdostano Autonomista, consigliere regionale, giornalista, federalista, spirito ribelle. Morì a 38 anni. Troppo presto. Troppo presto per chi aveva già fatto in tempo a lasciare un segno profondo. E troppo presto per un’Autonomia che aveva bisogno – e che oggi più che mai avrebbe bisogno – di voci come la sua.
Salvadori non era uno qualunque. Non era nemmeno il classico politico da corridoio consiliare, tutto mozioni e calcoli. Era un visionario concreto. Parlava francese senza complessi e sognava un’Europa non dei mercati, ma delle culture. Conosceva bene Roma, ma non si fidava di chi voleva inghiottire le identità regionali in una minestra centralista. Bruno voleva un’Italia dei Popoli, delle Autonomie vere, dei diritti reali.
Chi lo ricorda oggi – e sono in pochi, purtroppo – parla di un giovane capace di guardare oltre i confini del proprio campanile senza mai rinnegarlo. È stato, per usare un’immagine semplice, la tessera mancante del mosaico autonomista valdostano. Quella che, se fosse rimasta, forse avrebbe aiutato la nostra Petite Patrie a non smarrire la bussola tra il folklore da sagra e l’arroganza del centralismo mascherato da efficienza.
Nato a Aosta nel 1951, Bruno Salvadori entra giovanissimo nel Partito Valdostano Autonomista, di cui diventa segretario nel 1978. Giornale e politica erano i suoi strumenti, ma non amava la passerella. Dirigeva e scriveva per Le Peuple Valdôtain e sognava una Valle d’Aosta protagonista di un’Italia diversa, dove le Autonomie non fossero capricci localistici, ma colonne portanti di uno Stato finalmente moderno e rispettoso della diversità.
Aveva capito che il vero problema non era solo Roma, ma anche la pigrizia delle stesse Autonomie, che rischiavano di trasformarsi in statuts vuoti senza veri contenuti. Parlava di federalismo quando ancora era una parola sospetta. Aveva una rete di rapporti fuori Valle, e uno di questi fu un giovane medico di Varese, ancora semi sconosciuto: Umberto Bossi.
Bossi si fece le ossa sui testi e sulle idee di Salvadori. L’Italia dei Popoli che diventerà poi la parola d’ordine del primo movimento leghista ha un imprinting valdostano. Ma la strada si biforcò presto. Salvadori morì. Bossi andò avanti. Ma l’orizzonte cambiò. Dall’Europa dei Popoli si passò, col tempo, al nazionalismo d’accatto, al sovranismo antieuropeo, al verde padano che si fece tricolore a forza di proclami.
Chissà cosa avrebbe pensato Bruno Salvadori della Lega di oggi. Forse avrebbe sorriso amaramente. Forse si sarebbe arrabbiato. Sicuramente si sarebbe battuto per rimettere al centro quel progetto originario: un federalismo vero, fatto di responsabilità e prossimità, non di proclami identitari.
Con la sua morte, l’Autonomia valdostana perse una figura di rottura ma anche di sintesi. Capace di dialogare col popolo come con i professori. Capace di contestare il centralismo romano ma anche di mettere in discussione le pigrizie di una politica locale sempre più occupata a difendere privilegi anziché ideali.
Il suo ricordo oggi è flebile, confinato alle commemorazioni formali. Ma sarebbe ora che la Petite Patrie tornasse a porsi la domanda che Salvadori si poneva ogni giorno: “Qual è il senso dell’Autonomia, se non serve a far vivere meglio i suoi cittadini?”.
L’8 giugno, ogni anno, dovrebbe essere un’occasione per riaprire questo dialogo. Per ricordare che l’Autonomia non è un totem né un feticcio, ma uno strumento. E che mancando Salvadori, manca ancora oggi una tessera importante per completare il nostro mosaico.
PER SAPERNE DI PIU'
INTERVISTA IMMAGINARIA A BRUNO SALVADORI - “L’Autonomia non è una bandiera da sventolare, ma un compito da assolvere”
Intervista immaginaria come se fosse oggi, con la lucidità di allora e la consapevolezza di ciò che è (e non è) diventato il federalismo in Italia. L’ambientazione è simbolica: uno studio sobrio, una tazza di caffè e sul tavolo una copia sgualcita de Le Peuple Valdôtain
Bruno Salvadori, se fosse ancora con noi oggi, cosa penserebbe della Valle d’Aosta e della sua Autonomia?
Penso che abbiamo confuso l’Autonomia con una rendita di posizione. È diventata un'abitudine istituzionale, più che una sfida politica. La Valle ha strumenti che altre Regioni possono solo sognare, ma spesso non li usa fino in fondo. E soprattutto, ha smesso di spiegarli alla gente. Se non coinvolgi i cittadini, l’Autonomia muore di burocrazia.
Lei parlava già negli anni Settanta di federalismo, quando in Italia era parola sospetta. Che differenza c’è tra quel federalismo e quello rivendicato dalla Lega di oggi?
Una differenza abissale. Io parlavo di un federalismo dei popoli, dei territori, delle culture. Di una pluralità che andasse oltre gli interessi fiscali. Oggi si confonde il federalismo con l’egoismo. Con la logica del “prima il Nord”, poi il “prima gli italiani”, poi chissà cosa. Ma il vero federalismo è solidarietà strutturata, non chiusura. È una rete, non un recinto.
È vero che lei influenzò Umberto Bossi e le origini della Lega Nord?
Sì, ci incontrammo, parlammo a lungo. Era curioso, affamato di idee. Ma io gli parlavo dell’Europa dei Popoli, lui poi ha preferito un’altra strada. Inizialmente ci fu qualcosa di simile tra i nostri percorsi, ma il populismo ha stravolto tutto. La Lega ha dimenticato le radici per rincorrere i voti. Il popolarismo non è populismo: è un'altra cosa.
Cosa significa per lei essere valdostani oggi?
Significa portare nel cuore e nella testa una minoranza linguistica e culturale che non chiede di essere compatita, ma rispettata. Essere valdostani oggi dovrebbe voler dire essere laboratorio d’Europa, non roccaforte del clientelismo. Significa parlare francese senza vergognarsene, difendere le montagne ma anche i diritti sociali. È una missione, non una scusa.
Cosa avrebbe voluto fare se non ci fosse stato quell’incidente nel giugno del 1980?
Avrei continuato a rompere le scatole. Magari in Parlamento. Magari a Bruxelles. O magari scrivendo un giornale alternativo. La mia battaglia non era per un posto, ma per un'idea. L'idea che i piccoli popoli abbiano diritto a contare senza chiedere permesso.
Oggi c’è ancora speranza per il federalismo?
Sì, ma deve rinascere dal basso. Dalle scuole, dai municipi, dai cittadini che capiscono che la vera Autonomia non è chiedere più soldi, ma gestirli meglio. Serve una nuova generazione di autonomisti che non confonda l’identità con il localismo. Che sappia volare alto partendo dai piedi ben piantati nei sentieri della propria terra.
L’ultima domanda: cosa direbbe ai valdostani di oggi, in un momento in cui l’Autonomia sembra arrancare?
Che la Petite Patrie non è un’idea romantica, ma una responsabilità. E che la tessera mancante del nostro mosaico è il coraggio. Il coraggio di cambiare, di ripartire, di non accontentarsi. Se non ce lo riprendiamo noi il nostro futuro, non verrà certo da Roma a portarcelo qualcuno.



