La tratta Aosta–Pré-Saint-Didier è chiusa, e lo sarà ancora per molto. Una fortuna travestita da disgrazia: potrebbe diventare l’occasione d’oro per ridisegnare Aosta. In tante città la ferrovia è stata interrata, integrata, cucita con ago e filo nel tessuto urbano. Trento lo sta facendo. Torino l’ha fatto. Aosta, invece? Immobile. Inamovibile. Cristallizzata come una cartolina sbiadita, magari anche un po’ sgualcita.
Via Chamolé, via Paravera, via Voison: crocevia del disagio. Un ponte ferroviario ottocentesco a otto arcate che obbliga i bus a fare lo slalom e i camion a sfiancarsi in manovre da circo Barnum. I residenti protestano, i mezzi arrancano, i sindaci tergiversano. E nulla cambia. Anzi, forse peggiora. Una perfetta rappresentazione plastica dell’immobilismo valdostano, scolpita in pietra e ruggine.
Renzo Pieropan, cittadino con spirito civico (merce ormai più rara di un panda albino), ha scritto al consigliere Giovanni Girardini per chiedere un atto di coraggio. Interrare la ferrovia. Non per estetica o mania del nuovo, ma per liberare la città da un vincolo assurdo. Già, perché ad Aosta non si tratta di sognare grattacieli: si tratta di togliere un tappo da una bottiglia. Ma evidentemente, aprire bottiglie non è nelle corde della politica locale, se non a fine mandato, giusto per un brindisi.
A Trento deviano i treni merci in galleria e progettano una città nuova. Qui si aspetta. Si riflette. Si valuta. Si rinvia. Si fanno tavoli, si convocano commissioni, si producono slide colorate. E intanto il ponte resta lì, come un monumento all’indecisione. Un inutile reperto ferroviario di una linea chiusa, che però continua a strangolare la viabilità urbana come un boa constrictor.
La proposta di eliminare alcune arcate per creare un’unica campata è semplice. Talmente semplice che non si fa. Troppo concreta, forse. Non abbastanza “visionaria” per i cultori del nulla che spesso occupano le stanze dei bottoni. Qui le idee troppo pratiche puzzano di eresia.
E allora proviamo a sognare sul serio: una ferrovia interrata, una stazione ipogea, aree verdi in superficie, parcheggi, piste ciclabili. Aosta come città europea, non come villaggio medievale ostaggio di binari arrugginiti e decisioni non prese. Ma per farlo servirebbero progettualità, ambizione, e una parola che qui spaventa più di tutte: responsabilità.
Sì, perché in Valle d’Aosta il rischio non è l’utopia. Il rischio è l’abitudine. La rassegnazione. La cronica allergia alla concretezza. Lo abbiamo visto con il trenino di Cogne: un capolavoro di spreco, nostalgia e improvvisazione. Lo vediamo ora con la ferrovia cittadina. Tutto è difficile, tutto è complicato, tutto è rimandato. E nel frattempo, i cittadini aspettano. E respirano gas di scarico sotto un ponte del 1800.
Eppure questa è l’occasione per fare qualcosa di epocale con mezzi ragionevoli. Per cambiare il volto di una città. Per restituire spazio ai cittadini e dignità all’urbanistica. Ma servono politici svegli, amministratori capaci e — soprattutto — un minimo di vergogna per tutto il tempo perso.
Augusta Praetoria non può essere ricordata solo per le rovine romane. È tempo di costruire qualcosa che non sia solo retorica. Interrare la ferrovia è una sfida. Ma soprattutto è una cartina al tornasole. Per capire se Aosta vuole restare un borgo diviso e incartapecorito, o diventare, finalmente, una città degna di questo nome. Sempre che qualcuno, prima o poi, decida di alzarsi dalla sedia.













