Se la sanità territoriale fosse una staffetta, la Valle d’Aosta sarebbe quel corridore che, pur con le scarpe logore e la pista in salita, è riuscito a prendere il testimone e a mettersi in marcia. Non il più veloce, forse, ma nemmeno quello che resta fermo a guardare.
Lo dicono i dati — quelli della Fondazione GIMBE, dell’Agenas e del Ministero della Salute — che non urlano come i talk show, ma parlano chiaro.
In Valle d’Aosta, tutti e 8 i distretti sanitari hanno attivato l’assistenza domiciliare integrata (ADI). Un dato pieno, 100%, ben superiore alla media italiana, e che significa una cosa semplice: se un anziano ha bisogno di cure a casa, almeno qui una porta si apre. A questo si aggiunge la copertura delle centrali operative territoriali (COT), che raggiunge anch’essa l’8 su 8, segno che il sistema, almeno nella regia dei servizi domiciliari, c’è ed è funzionante.
Ma poi arrivano le note stonate, perché — come spesso accade in Italia — il merito si guadagna su un versante, mentre sul resto si arranca.
Le famose “Case della Comunità”, in Valle d’Aosta, sono quattro quelle previste, ma ancora nessuna è pienamente attiva. Nessun servizio integrato, nessun orario prolungato, nessun team multidisciplinare stabile. Stesso discorso per gli “Ospedali di Comunità”: due previsti, zero avviati.
Un po’ come annunciare un rifugio alpino e scoprire che c’è solo il cartello, ma nessun tetto.
Eppure non tutto è da buttare, anzi. Sul fronte digitale, la Valle mostra i muscoli: il 69% dei cittadini ha detto sì alla consultazione del proprio Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), contro una media nazionale ferma al 42%. Non solo: il 100% dei referti, dei verbali di pronto soccorso e delle lettere di dimissione è caricato sul fascicolo, un risultato che pochissime regioni possono vantare.
Un segno di fiducia, e forse anche di una cultura civica che, se non altro, crede ancora nel “pubblico” che funziona.
Ma allargando l’obiettivo, come con un drone che sale fino a vedere l’intero stivale, il panorama è sconfortante. Lo dice la Fondazione GIMBE con un’onestà chirurgica: la riforma dell’assistenza territoriale in Italia è una macchina accesa ma senza marce.
“Il rischio concreto – ha dichiarato Nino Cartabellotta, presidente di GIMBE – è che l’assistenza territoriale, così come immaginata dal PNRR, resti una grande incompiuta: tante inaugurazioni, tante promesse, ma pochi servizi attivi, poco personale, poca integrazione con i medici di famiglia”.
Dati alla mano: solo il 2,7% delle Case della Comunità in Italia è pienamente operativo. Gli Ospedali di Comunità, zero. Il Fascicolo Sanitario Elettronico è consultabile dal cittadino solo in 11 regioni, e nemmeno una ha completato il caricamento dei documenti previsti.
Ci si chiede allora: perché? La risposta è vecchia come l’Italia repubblicana. Perché le riforme si annunciano, si finanziano, si inaugurano, ma poi si schiantano contro il muro della burocrazia, della carenza di personale, delle resistenze corporative. E in questo caso, anche del silenzio — colpevole — dei medici di medicina generale, che avrebbero dovuto essere i protagonisti della rivoluzione ma si sono accomodati ai margini.
Così, a poco più di un anno dalla scadenza del PNRR, rischiamo di fare la solita figura: quella del Paese che “centra i target” sulla carta, ma che nella realtà resta senza infermieri, senza strutture funzionanti, senza una sanità che cammina sulle gambe.
E allora la Valle d’Aosta, con tutti i suoi limiti, sembra quasi un modello. Non perché brilli, ma perché almeno si muove. Mentre altrove, dalle Alpi alla Sila, si predica la prossimità ma si pratica l’abbandono. E in un’Italia dove la salute è sempre più una lotteria geografica, il campanile non è più solo un simbolo: è l’unico presidio rimasto.