Anche l’encefalite letargica si propagò rapidissimamente, rivelandosi un morbo degenerativo fatale per milioni di persone, che di colpo cadevano in un profondo torpore che le bloccava completamente, rendendole del tutto incapaci di fronteggiare la quotidianità. La sindrome sfociava sovente nella paralisi e nella morte. In caso di sopravvivenza, l’encefalite provocava invalidità permanente, con penosi tremori e una postura curva in avanti. Alcuni guarivano in apparenza, ma a distanza di anni manifestavano sintomi assai simili a quelli del morbo di Parkinson.
In quei tempi di miseria e sofferenza, un apprezzato guaritore bulgaro itinerante, Ivan Raev, nato a Sapot il 17 settembre 1876, nel territorio dei Balcani, percorreva le contrade cercando di sopravvivere come meglio riusciva, proponendo e perfezionando rimedi popolari. Suo padre, coltivatore diretto e attento raccoglitore di erbe medicinali, era rimasto presto vedovo: si era risposato e Ivan aveva dovuto imparare in fretta a badare a se stesso, togliendo il disturbo. Faceva il taumaturgo ambulante, il bracciante o il pastore a seconda delle circostanze. Ampliò assai le proprie conoscenze botaniche quando strinse amicizia con un dotto religioso musulmano, Hoxa.
Imparò a estrarre con maestria i denti guasti. Non si faceva mai pagare dai poveri e la gente lo adorava.
Nel 1919 eccolo sposato con Neda, figlia di un curandero della Valle delle Rose.
Correva l’anno 1922 quando trovò ospitalità in una casupola durante i vagabondaggi finalizzati ad approfondire la sua arte, nonché a sbarcare il lunario. Una sventurata madre di famiglia era in agonia a causa dell’encefalite letargica.
Ivan si ricordò che i suoi genitori, contadini, curavano una malattia molto simile, che affliggeva le mucche, con un’erba dai poteri misteriosi: la belladonna, nota come ritrovato delle streghe, che poteva rivelarsi pericolosa se non dosata attentamente. Molti asserivano che dalla belladonna le fattucchiere ricavassero l’unguento per permetteva loro di volare, librandosi intrepide nel cielo stellato per partecipare al sabba.
Ansioso di lenire tanta sofferenza, Ivan fece bollire una piccola quantità di radici, ricavando un decotto. Poi raccomandò che l’ammalata bevesse del latte a volontà, per scongiurare gli effetti secondari.
Ben presto, la paziente peggiorò e Ivan, desideroso di sottrarsi alle reazioni dei familiari, fuggì di soppiatto a gambe levate !! Solo più avanti, passando di villaggio in villaggio, apprese che la malata si era ristabilita completamente. Era nato il metodo Raev !! Privo di studi accademici, ma intelligente e sensibile, Ivan si dedicò con entusiasmo a perfezionare la terapia, ottenendo strepitosi successi e riuscendo a guarire anche coloro che soffrivano di postumi debilitanti da tempo. Aggiunse alla belladonna rabarbaro, alcol, menta, noce moscata e varie altre sostanze, per annullare le controindicazioni della prodigiosa erba della strega.
Divenne celebre al punto di accudire un colonnello italiano che si trovava in Bulgaria, ospite di re Boris III°, un sovrano che credeva fermamente nella medicina naturale. L’ufficiale si ristabilì in men che non si dica e la fama del portentoso ritrovato di Ivan giunse alla corte italiana, destando l’immediato interesse della regina Elena del Montenegro, sposa di Vittorio Emanuele III° e suocera di Boris.
Nota per il suo spirito caritatevole, la regina amava prodigarsi per il prossimo con grande generosità, incurante dei brontolamenti cronici del parsimonioso consorte. Era una donna bella, istruita e perspicace. Discendeva da un popolo fiero e libero, forte di una tradizione erboristica millenaria. Si interessava di medicina e ben cinquantadue donne di varie estrazioni sociali avevano potuto contare sulla sua assistenza diretta al momento di partorire. Durante la prima guerra mondiale era stata infermiera a tempo pieno, accanto alle truppe e aveva trasformato in ospedali Villa Margherita e il Quirinale.
La sovrana si appassionò al metodo Raev e convinse il celebre neuropatologo Giuseppe Panegrossi a somministrare quel rimedio miracoloso ai sofferenti della nostra Penisola. I medici tradizionali non credevano nel ritrovato del guaritore rurale, ma alla regina non si poteva negare nulla.
Le guarigioni furono innumerevoli. La regina pagava di tasca propria per chiunque. Nel 1934, Elena ottenne che un’ala del Policlinico Umberto I° accogliesse i “suoi” pazienti. Ne sarebbe derivato il primo “Istituto Regina Elena per lo studio e la cura dell’encefalite”. Ivan Raev produceva ed esportava ormai grandi quantità del suo rimedio. Era ricco e stimato.
La regina ottenne che la terapia fosse praticata gratuitamente in ogni ospedale italiano. E nel 1937 fondò, in Germania, nella regione Assia, dove sua figlia Mafalda si era stabilita dopo il matrimonio, un istituto identico a quello italiano. Parecchi cittadini tedeschi guarirono, salvandosi dallo sterminio che i nazisti progettavano per i malati psichiatrici incurabili.
Elena si prodigò con successo per diffondere il metodo Raev in tutto il mondo (Belgio, Inghilterra, Stati Uniti). A Ivan venne conferita al Quirinale l’onorificenza che tuttora compare sulla sua tomba.
Durante la sua laboriosa esistenza, la regina non si adoperò soltanto per i malati di encefalite cronica: soccorse con identico slancio, nel 1908, le vittime del terremoto di Messina e Reggio Calabria; curò i feriti durante seconda guerra mondiale; soccorse i tubercolosi; aiutò le madri in difficoltà. Mussolini si lamentava che “con lei si poteva parlare soltanto di ammalati e medicine!”.
Nel 1939, quando il secondo conflitto mondiale era iniziato da tre mesi, Elena scrisse alle regine degli Stati ancora neutrali per evitare all’Europa e al mondo il peggio, ma i suoi sforzi non furono coronati dal successo che meritavano.
Elena amava scrivere poesie, dipingere e suonare il violino. Conosceva diverse lingue straniere e si interessava di scienze esoteriche. Era appassionata di cinema e di fotografia.
Ricevette la laurea honoris causa privatamente a Villa Savoia. Promosse la ricerca scientifica contro il tumore, la poliomielite e il morbo di Parkinson. La Chiesa cattolica la onora come serva di Dio.
Dal matrimonio con re Vittorio erano nati cinque figli: Umberto, ultimo re d’Italia; la sfortunata principessa Mafalda, destinata a morire in campo di concentramento; Giovanna; Jolanda e Maria Francesca, che sperimentò a sua volta gli orrori dei lager.
Quella della coppia reale era stata un’unione d’amore. Per sposarsi, Elena aveva rinunciato alla fede ortodossa, diventando cattolica. Sempre per amore, aveva imparato il dialetto piemontese caro a Casa Savoia.
Elena rimase sempre al fianco del marito, nei momenti felici come in quelli tragici, accettando anche le decisioni che non condivideva. Restarono insieme, dal romantico viaggio di nozze nell’isola di Montecristo fino all’abdicazione e alla morte di lui in Egitto nel 1947.
Nata a Cettigne, capitale del Montenegro, l’8 gennaio 1873, Elena si spense il 28 novembre 1952 a Montpellier in Francia, stroncata da un cancro, dopo un lungo intervento chirurgico.
Ivan Raev morì nel 1938.
L’encefalite letargica sembrò scomparire, improvvisamente come si era presentata.