Sugli organi di stampa di questi giorni è emersa una proposta di riforma elettorale targata PD, assai diversa da quella sottoscritta dallo stesso partito nel programma elettorale del 2020 di PCP. Sorvoliamo sulla coerenza degli impegni che si prendono con gli elettori.
È triste però, vedere all’opera quel finto pragmatismo che abbandona temi e proposte in cui si dice agli elettori di credere, senza tentare nemmeno di convincere gli interlocutori contrari.
Si fa la mediazione prima di affrontare il confronto e alla fine ci si comporta come quella squadra di calcio che inizia la partita con una squadra più forte, puntando a contenere la sconfitta. Perde prima ancora del calcio di inizio. L’unica questione che sembra motivare gli sforzi di elaborazione del PD è quella, da quello che si legge, della ricerca di una soluzione che possa andar bene agli alleati autonomisti. Amen.
Nella proposta propongono di mantenere il proporzionale e costruire un artificio normativo per aumentare i consiglieri eletti nella/e lista/liste che vincono le elezioni con un premio di maggioranza che le porti a 23 eletti. Si pensa così di “sterilizzare” i conflitti e le debolezze delle maggioranze che abbiamo visto nell’ultimo decennio. Il tutto senza l’elezione diretta del Presidente e senza chiarire cosa siano, in concreto, queste somma di liste che dovrebbero apparentarsi in qualche modo.
Leggeremo la proposta di legge (da mesi annunciata e mai formalizzata) quando, finite le chiacchiere e ottenuto il via libera dagli attuali partners di maggioranza, qualcuno la depositerà. Lasciare la logica del proporzionale (affermazione della propria identità partitica, irrilevanza dei programmi, liste costruite con i candidati più “vecchi”, delega in bianco per il dopo, ecc ecc), porta il premio di maggioranza ad essere una “toppa” che congela la debolezza delle maggioranze (di qualsiasi colore politico) che rimangono cartelli elettorali senza coesione ne progetto e lascia, soprattutto, immutato il sistema. Si usa un analgesico, che silenzia, temporaneamente, i dolori e le fibrillazioni, ma che non cura il male vero che è la difficoltà dei partiti e dei candidati alla carica di consigliere a cercare, con alleati e compagni di maggioranza, programmi e motivazioni solide, che durino nel tempo. Si mette la polvere sotto il tappeto e non si risolve niente.
Ma come si ottiene, allora, una maggiore “stabilità” politica e amministrativa? Semplice. Bisogna avere il coraggio di andare nella direzione opposta dando più potere decisionale alle elettrici e agli elettori. Fornendo cioè, ai cittadini, un sistema elettorale che dica loro, prima del voto, cosa si vuol fare, con quale programma, con quali alleanze e con quale Presidente. In tal modo i cittadini scelgono, i consiglieri sono vincolati al rispetto della fiducia che hanno raccolto, l’amministrazione è stabile perché ha a disposizione un faro programmatico che è un patto di legislatura, e perché il Presidente non può essere sostituito se non attraverso lo scioglimento del Consiglio.
La figura del Presidente eletto - o del Sindaco - non è, nella mia esperienza e nemmeno nella realtà di migliaia di esperienze amministrative italiane ed europee, il dittatore che si paventa. Siamo onesti: la retorica sull'"uomo solo al comando" è una scusa.
L’elezione diretta di una figura monocratica serve a sancire due cose: una responsabilità amministrativa chiara e un garante della maggioranza e del programma di fronte al voto dei cittadini. Certo, la personalizzazione della politica di questi anni ha evidenziato qualche degenerazione, soprattutto a livello nazionale. L’esperienza concreta, però, ha individuato diversi correttivi per definire contrappesi e vincoli a favore del ruolo del Consiglio regionale. Contrappesi che funzionano in tutte le altre Regioni.
Perché non si vuole esplorarli? Roberto Ruffilli accademico e studioso dei sistemi democratici ucciso dalle BR nell’88, sosteneva che una “democrazia matura” è strutturalmente “complessa”, e tale dev’essere e rimanere, in quanto si fonda sul pluralismo politico, sociale e culturale che caratterizza la “società aperta”. Una Democrazia matura è fatta di leggi elettorali efficaci e stabili e partiti che svolgono appieno il loro ruolo di elaborazione e selezione dando un “mandato” vincolante agli eletti senza esserne succubi. Ma Ruffilli diceva ancora che, in una democrazia matura, il ruolo del cittadino è assimilabile, a quello di un “arbitro”.
L’obiettivo di ogni riforma dovrebbe essere la riqualificazione del potere effettivo del “cittadino arbitro”. Anziché relegarlo al ruolo di rassegnato spettatore delle sorti di maggioranze e governi, bisognerebbe ragionare, anche per combattere il crescente astensionismo, su come dare “valore effettivo” al suo voto, in modo da renderlo il vero “fattore dirimente” nella competizione tra i partiti. Una offerta chiara prima del voto, una scelta chiara di chi detiene la “sovranità” (noi tutti) e, quindi, legislature che durano cinque anni. Questa è la vera “stabilità”. Non trucchi e escamotage che non garantiscono nulla. Un “potere dei cittadini” da esercitare non solo con il voto attraverso la legge elettorale, ma anche attraverso altri strumenti come la cittadinanza attiva, la democrazia diretta, l’accesso libero alla mediazione degli altri poteri costituiti.
Comprensibile che qualcuno abbia paura dell’elezione diretta del Presidente, ma non per le ragioni addotte che sembrano, ai miei occhi, solo scuse. Si ha paura perché l’elezione diretta presuppone un cambiamento forte dei partiti e delle loro culture politiche. Ma possiamo permetterci di andare avanti così?