E sì, la nostra “Petite patrie”, così orgogliosamente diversa, racchiusa tra i confini italici ma che non si sente italiana — anzi, qualcuno detesta così tanto l’Italia da dire da sempre che sarebbe meglio essere sotto la Francia. Ma si sa: certi sogni restano sogni. Tutt’al più ci si accontenta del bilinguismo.
Chiariamo bene: si ama il bilinguismo non per patriottismo d’oltralpe, né per un fatto culturale o di arricchimento linguistico, ma più banalmente per un motivo prettamente pecuniario. Come si dice: pecunia non olet — e fa sempre comodo. Poco importa se sai a malapena biascicare “Nom” e “Cognom”; a fine mese, la busta paga più corposa dei vicini piemontesi o lombardi vale pur sempre un piccolo sforzo.
E fu così che, per decenni, abbiamo avuto medici e specialisti che — non sapendo dire “Nom” e “Cognom” — non hanno superato il fatidico esame di francese, privando la nostra regione della loro opera. Poco importava se fossero magari dei luminari: le regole sono regole. Potevi pure essere Barnard, il più famoso cardiologo del mondo, ma senza il francese te ne tornavi da dove sei venuto.
Anche se, in tutta onestà, nonostante alcune operazioni, non ho mai sentito un solo medico che, con faccia sorridente, mi dicesse: “Ne vous inquiétez pas, tout va bien” (non traduco, so che sapete il francese). E così siamo finiti (si fa per dire) ad avere gente che parlava discretamente il francese, ma forse sarebbe stato meglio avere dei buoni professionisti — in tutti i settori.
Ma, sorvolando su questa nota colorita, possiamo dire che la nostra piccola regione non si differenzia poi tanto dal resto della penisola. E nonostante l'unità d’Italia resti ancora un miraggio, direi che da noi è quasi andata peggio: siamo i diretti discendenti di un popolo che era feudale e che conserva usi, costumi e tradizioni... feudali.
Infatti, possiamo forse negare che — dal feudalesimo medievale — siamo passati a un feudalesimo moderno?
Come dimenticare le famose battute che identificavano il politico di turno? Ricordo ancora quando, nei chiacchiericci da bar, si diceva che Brusson era il feudo dell’empereur Rollandin, o che Gressan era il feudo dei Viérin. E come negare che, per i montagnards di Valsavarenche o di Oyace, i cittadini di Aosta erano visti come les citoyens, quelli più vicini a Roma, quelli che votavano i partiti romani? Insomma, quasi degli stranieri.
Ma è stato proprio questo concetto feudale e campanilistico a creare le più vistose diseguaglianze nella nostra regione. Una piccola regione di poco più di 120.000 abitanti con 74 comuni, con delle incongruenze fiscali da far rabbrividire.
E così ci troviamo con 74 tariffe diverse per l’acqua: si va da 0,12 centesimi al metro cubo in alcuni comuni a oltre 0,79 in comuni vicini, per non parlare poi delle tariffe fisse.
Poi si continua con 74 tariffe diverse per la tassa rifiuti: i bambini di un comune sono diversi da quelli del comune accanto — infatti pagano di meno. Provate a fare ricerche, anche con l’intelligenza artificiale, e non ne venite a capo.
Non parliamo poi degli oneri urbanistici: basta semplicemente attraversare la strada e passare nell’altro comune per trovarsi a pagare tre volte tanto rispetto al proprio.
Eppure, né i 35 consiglieri regionali, né i presidenti di comunità, né il CELVA, né il BIM, né i sindaci di tutti i comuni si sono mai posti il problema. Ma perché siamo tutti diversi?
Costa davvero così tanto trattare tutti i cittadini valdostani allo stesso modo? Avere le stesse tariffe sui servizi non sarebbe forse più equo?
Perché il cittadino di Oyace deve essere diverso da quello di Cogne?
Abbiamo un bel da criticare questo o quel governo nazionale. Credo che la prima cosa da fare sia guardare a casa nostra. Perché dite quel che volete, ma abbiamo ancora tanto da fare. E la prima è imparare che siamo tutti valdostani. E dobbiamo fare in modo che tutti siano uguali.










