Ogni anno, da quasi quarant’anni, in Italia nascono più maschi che femmine. Non è un caso, non è una variazione statistica, ma una costante: una regolarità biologica che sembra essere diventata la nuova normalità, e che Il Sole 24 Ore ha recentemente messo in luce analizzando i dati ISTAT e quelli della World Bank. Il dato è chiaro: dal 1982 in avanti, per ogni classe d’età, ci sono più uomini che donne. Solo tra i nati prima del 1982 le donne sono ancora in maggioranza, effetto dell’aspettativa di vita più alta.
Secondo l’ISTAT, dal 1999 al 2024 sono nati in Italia oltre 370.000 maschi in più rispetto alle femmine. Un numero enorme, che corrisponde alla popolazione di una grande città. E se guardiamo i dati globali della World Bank, il fenomeno non è solo italiano: accade in tutto il mondo, salvo rarissime eccezioni.
Il sesso assegnato alla nascita, che è quello rilevato dalle statistiche, mostra un rapporto maschi/femmine che sfiora l’1,05, ovvero per ogni 100 femmine, nascono circa 105 maschi. Biologicamente, questo è noto: la natura tende a produrre più maschi, compensando la loro maggiore mortalità in età infantile. Ma il fenomeno non si ferma all’infanzia, anzi: in Italia, questa sproporzione si mantiene fino a dopo i trent’anni.
Quello che dovrebbe essere un equilibrio dinamico tra nascite e mortalità, in realtà produce uno squilibrio di lungo periodo, che inizia a farsi sentire socialmente: più maschi in età fertile, meno femmine disponibili per costruire relazioni eterosessuali. Sembra banale, ma non lo è. E può avere ricadute profonde, sociali, psicologiche e persino politiche.
Da un lato, questo sbilanciamento potrebbe essere strumentalizzato dai movimenti INCEL, i cosiddetti “celibi involontari”, che attribuiscono alle donne la colpa della loro condizione e invocano improbabili ritorni alla “normalità” relazionale. Dall’altro, ci costringe a porci domande più profonde: che cos'è oggi la famiglia? Chi può davvero permettersi di costruirne una? E con chi?
Ma c’è un’altra questione: è vero che siamo in piena denatalità, ma ci si dimentica troppo spesso che oggi le donne in età fertile sono semplicemente meno. Non solo fanno meno figli: sono proprio meno donne, nate in numero minore sin dagli anni Ottanta. Il calo delle nascite non è solo culturale o economico, ma anagraficamente inevitabile, se non si capisce la base matematica del problema.
“Forse la natura ci sta suggerendo qualcosa? O forse, semplicemente, ci ricorda che l’eterosessualità non è l’unico paradigma possibile?” — si chiede provocatoriamente l’articolo de Il Sole 24 Ore.
L’esempio più inquietante viene dalla Cina. Qui, l’aborto selettivo e la politica del figlio unico hanno prodotto un disequilibrio gravissimo, con milioni di uomini che non troveranno mai una partner. Le tensioni sociali e le frustrazioni personali si stanno già facendo sentire, anche se il governo cinese evita di parlarne apertamente.
E l’Italia? Non abbiamo politiche nataliste degne di questo nome. Ma continuiamo a parlare di “famiglia tradizionale” come se fosse una forma garantita dalla biologia, mentre i dati dimostrano che la base numerica su cui quella retorica si regge si sta erodendo sotto i nostri occhi.
In un’Italia che invecchia, ignorare l’evidenza statistica significa evitare il problema. Serve una nuova narrazione della natalità, non solo fondata sui bonus o sul culto della “mamma”, ma sulla consapevolezza reale delle dinamiche demografiche.
Più maschi che femmine significa anche, in prospettiva, più solitudine maschile, più competizione affettiva, più instabilità sociale.
Il dato ci obbliga a guardare oltre le ideologie. Non basta più dire che servono più figli: bisogna chiedersi chi potrà davvero generarli. E se il trend continuerà, anche solo per altri 20 anni, cambierà definitivamente il volto sociale del nostro Paese.