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CRONACA | 14 luglio 2024, 08:30

La nuova missione di Marco Sorbara Ambasciatore del Perdono

Marco Sorbara, consigliere regionale in Valle d'Aosta, ha passato oltre due anni in custodia cautelare. La Cassazione l'ha dichiarato innocente. "Non bisogna mai arrendersi." Oggi dice "La mia esperienza di custodia cautelare è stata un viaggio attraverso l'oscurità, ma anche una prova di scoperta personale e di forza interiore"

Marco Sorbara (foto tratta da Avvenire)

Marco Sorbara (foto tratta da Avvenire)

Da consigliere regionale in Valle d’Aosta, Marco Sorbara è finito in manette. Un'ingiustizia affrontata con resilienza, quella di Sorbara, che ora è diventato “ambasciatore del perdono”. Nei giorni scorsi, il quotidiano Avvenire ha riproposto ai suoi lettori la drammatica vicenda giudiziaria di Sorbara, mettendo in luce le difficoltà affrontate e la sua rinascita.

Era il 23 gennaio 2019. «Una mattina come tante altre, la mia vita cambiò radicalmente – spiega Sorbara –. Senza preavviso, mi ritrovai accusato di un crimine che non avevo commesso e trascinato in un incubo giudiziario che mi avrebbe tenuto prigioniero per più di due anni di custodia cautelare. Ero accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ho trascorso 45 giorni in isolamento, una condizione che nessuno dovrebbe mai sperimentare. La mia cella era una minuscola stanza di quattro passi per due, priva di televisione, radio, senza doccia e senza acqua calda. Un letto in ferro cementato per terra».

Forse le sue origini calabresi e le accuse costruite ad arte hanno contribuito a rovinargli la vita. Un incubo iniziato da quando ha cominciato a occuparsi di politica. Per di più con l’Union Valdôtaine. Fino ad allora era un tranquillo impiegato con un passato sportivo di valore, avendo militato nella serie A di hockey su ghiaccio. Nel 2015 è risultato il più votato al Comune di Aosta, tanto da diventare assessore alla Sanità e ai Servizi sociali. Poi, nel 2018, un altro balzo in avanti: consigliere regionale e presidente della commissione Trasporti.

Dagli scranni della Regione alla cella il passo è stato breve. Prima, però, l’isolamento: una prova estrema per la mente e lo spirito. Per 33 giorni non ha visto né parlato con la madre e il fratello. Sensazioni difficili da ricordare ora che è un uomo libero. «Le pareti della mia cella sembravano chiudersi su di me, mentre il silenzio diventava assordante – racconta –. L'unico rumore era il gocciolio dell'acqua fredda dal rubinetto, una costante e crudele compagnia. Ogni giorno, contavo i passi, quattro passi per due, da un angolo all'altro della cella, cercando di mantenere un minimo di sanità mentale. Facevo le flessioni, respiravo lentamente e quel poco cibo che riuscivo a mangiare lo deglutivo molto lentamente. La percezione del tempo cambia totalmente».

La separazione forzata dalla sua famiglia per 33 giorni fu una delle esperienze più devastanti. Sua madre è sempre stata il suo punto di riferimento, il suo sostegno emotivo. Non poterla vedere o sentire la sua voce lo ha fatto sentire completamente abbandonato. «Ogni giorno che passava senza di lei – ha raccontatao ad Avvenire – era una lotta per non cedere alla disperazione e mantenere la speranza viva. Mi aggrappavo a ogni piccola distrazione: leggere le 872 pagine dove i giudici affermavano, sbagliando, che io fossi un mostro.

Marco Sorbara sembra dire: 'eccomi'

Scrivevo lettere che non avevo modo di spedire, contavo i passi avanti e indietro. Ogni azione ripetitiva diventava un modo per non perdere la ragione. Nonostante tutto, non persi mai la speranza. Ogni giorno cercavo un motivo per andare avanti. Mi rifugiavo nei ricordi felici e nella convinzione che un giorno tutto sarebbe finito. La fede, lo sport e il sostegno invisibile della mia famiglia mi davano la forza per resistere. Credevo fermamente nella mia innocenza e nella giustizia, e questo mi aiutò a superare anche i momenti più bui».

Quando finalmente la Cassazione l’ha dichiarato innocente ed è stato rilasciato, era una persona profondamente cambiata. Quei 909 giorni gli hanno lasciato cicatrici, ma anche una nuova consapevolezza della sua forza interiore.

«Oggi, giro per le scuole, le carceri, gli oratori e i convegni per raccontare la mia storia – dichiara –. Il mio obiettivo è diffondere un messaggio di speranza e resilienza. Voglio che le persone sappiano che non bisogna mai arrendersi, anche nelle situazioni più difficili.

La mia fede, la mia famiglia e lo sport mi hanno permesso di continuare a credere nella giustizia e, alla fine, di dimostrare la mia innocenza. La mia esperienza di custodia cautelare è stata un viaggio attraverso l'oscurità, ma anche una prova di scoperta personale e di forza interiore. Ho imparato a resistere, a sopravvivere e a mantenere la speranza anche nelle circostanze più difficili. Oggi, il mio impegno è condividere questa lezione con gli altri, mostrando che, con determinazione e supporto, si può superare qualsiasi avversità».

pi.mi.

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