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CRONACA | 17 luglio 2015, 18:22

MAFIA: 'Attentati a pretore aostano Selis commissionati da mafia dei Casinò'

La ricostruzione della vicenda, svolta dal giornalista di Repubblica Enrico Deaglio e pubblicata sul settimanale 'Il Venerdì', porta nuova luce su fatti e misfatti che all'epoca sfiorarono anche politici valdostani che erano nel mirino di Selis per abusi e favoreggiamenti edilizi

L'avvocato Fabio Repici

L'avvocato Fabio Repici

C'è un filo rosso che lega gli attentati del 1982 all'allora pretore di Aosta, Giovanni Selis, l'omicidio nel 1983 del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia e l'attentato di via D'Amelio del 19 luglio 1992, in cui morirono il giudice istruttore Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta. Ne è convinto l'avvocato Fabio Repici, legale dei tre figli di Bruno Caccia, che ha condotto una 'controinchiesta' sulla morte del magistrato antimafia.

Nei giorni scorsi, infatti, il legale ha sollecitato, nel corso di un'audizione di fronte alla Commissione antimafia del Comune di Torino, la riapertura del processo sull'omicidio di Caccia, che per l'avvocato fu ordinato dalle famiglie di mafia che, capofila quella del catanese Nitto Santapaola, volevano impossessarsi nella prima metà degli anni Ottanta della gestione di almeno una decina di importanti Case da gioco, tra cui quella di Saint-Vincent.

Repici ha ricostruito gli attentati al procuratore di Aosta Selis: il 13 dicembre 1982 una bomba collegata al cruscotto della sua Fiat 500 esplose, lasciando illeso il magistrato che, due giorni dopo, sfuggì a un secondo attentato sul pianerottolo di casa. Selis era certo di sapere chi fossero i mandanti: mafiosi che operavano al Casino de la Vallée di Saint-Vincent, sui quali da tempo il pretore stava indagando. Certezza espressa a chiare lettere da Selis al procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, che investigava per competenza territoriale sugli attentati ad Aosta e che fece proprie le certezze di Selis, orientando le proprie indagini sulla 'mafia dei casinò'.

Il 26 giugno 1983 Caccia fu assassinato a Torino, mentre portava a spasso il cane. Vi fu una rivendicazione delle Br, fasulla e smentite dalle stesse Brigate Rosse. Due anni dopo la Procura di Milano diede un nome al mandante dei killer (mai scoperti): Domenico Belfiore, un 'ndranghetista 30enne che si trovava in carcere a Torino. Belfiore si lasciò sfuggire una confidenza con un altro detenuto, un mafioso siciliano che però, stranamente, era munito di registratore: “Per Caccia ci dovreste ringraziare”, gli disse. Bastò quella frase registrata, chissà come e quando, per condannare Belfiore all'ergastolo quale mandante dell'omicidio del procuratore capo di Torino. Belfiore si è sempre proclamato innocente e anche adesso, scarcerato per gravi motivi di salute, nega che l'omicidio di Caccia sia stato organizzato dalla 'ndrangheta e soprattutto non da lui.

L'avvocato Repici gli crede, rafforzato da una serie di elementi investigativi e testimonianze raccolti nel corso degli anni insieme al magistrato Mario Vaudano (già pretore e poi pm ad Aosta e a Torino) e in un esposto presentato nei giorni scorsi alla Procura di Milano sostiene che il procuratore Caccia sarebbe morto per aver portato avanti le indagini del pretore aostano Selis (morto suicida nel 1987), ampliandole e scoprendo una rete criminale che stava acquisendo il controllo della gestione dei Casinò del Norditalia e in Costa Azzurra.

Caccia sarebbe stato ucciso su ordine di un 'cartello' di esponenti delle mafie catanesi, palermitane, calabresi, corse e marsigliesi. Una rete coordinata dai potenti boss Santapaola, Epaminonda, Miano e da tal Rosario Pio Cattafi, personaggio 'cardine' tra mafia e Stato, coinvolto in vicende oscure della Storia d'Italia e in decine di fatti di cronaca, ma che ha goduto di trattamenti di riguardo da parte di magistrati ed esponenti delle istituzioni.

Per proteggere Cattafi ed altri esponenti delle 'mafie dei casinò' si sarebbero mossi i servizi segreti deviati, indirizzando su Belfiore le indagini degli inquirenti milanesi. I nomi dei boss e dello stesso Cattafi ricompaiono anni dopo nelle carte della strage di via D'Amelio, nelle cui indagini, come in quelle sull'omicidio di Caccia, non sono mancati depistaggi (i racconti del presunto 'autista' dell'auto contenente l'esplosivo, Domenico Scarantino, sono stati smentiti dalla confessione del boss Gaspare Spatuzza), e trame dei servizi segreti. 

La ricostruzione della vicenda, svolta dal giornalista di Repubblica Enrico Deaglio e pubblicata sul settimanale 'Il Venerdì', porta nuova luce su fatti e misfatti che all'epoca sfiorarono anche politici valdostani che erano nel mirino di Selis per abusi e favoreggiamenti edilizi.

aostacronaca.it

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