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ATTUALITÀ POLITICA | 21 dicembre 2025, 12:00

Un secolo in dodici secondi

Il 2025 chiude simbolicamente cent’anni di storia italiana. Un secolo fatto di tragedie, rinascite, illusioni e paure, che oggi rischiamo di comprimere nello spazio di uno scroll. Tra memoria corta, nostalgia digitale e bisogno urgente di capire chi siamo stati per sapere chi siamo

Immagine realizzata da IA

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Oggi, mentre sfogliavo un giornale e leggevo un articolo che metteva la data in grassetto per catturare l’attenzione del lettore, mi sono accorto quasi per caso che il 2025 chiude simbolicamente un secolo di storia italiana. Mi è venuto da sorridere, ripensando a quanti periodi abbiamo attraversato e a quanto poco, oggi, sembriamo disposti a fermarci davvero su ciò che siamo stati. Siamo un Paese che ha vissuto tragedie epocali e che ora si emoziona per un video di dodici secondi su TikTok.

Cent’anni fa inciampavamo nel Ventennio. Mussolini si prendeva il Paese come fosse un condominio lasciato incustodito, ci buttavamo in una guerra che non volevamo – o che alcuni volevano, convinti che “vincere” fosse solo una parola buona per i discorsi – e bastarono pochi mesi perché molti capissero che quella vittoria non sarebbe mai arrivata. Crollavamo nel ’43, ci liberavamo nel ’45, e intanto contavamo morti, stragi, macerie. Oggi, invece, c’è chi parla di quel periodo con la stessa competenza con cui commenta un rigore sbagliato la domenica sera.

Marco Camisani Calzolari, in uno dei suoi monologhi, parla di memoria corta, di memoria a breve termine. Di come non si approfondiscano più gli argomenti, di come ci si fermi al titolo di un giornale o, peggio ancora, a un post su Facebook o a un video su TikTok. Non verifichiamo, non controlliamo, non ci chiediamo se ciò che leggiamo sia vero o manipolato, o magari completamente falso, creato con l’intelligenza artificiale. La memoria corta diventa così la vera arma di distruzione di massa: cancella tutto, tranne i pregiudizi.

Poi arrivano gli anni Cinquanta e Sessanta, la ricostruzione, le fabbriche che fumano, le valigie di cartone che dal Sud salgono al Nord. Gente che cercava lavoro, dignità, un futuro, e che oggi verrebbe probabilmente definita “invasione”. Un Paese che cresceva, sbagliava, si reinventava, mentre sotto la superficie covavano tensioni e ferite mai davvero rimarginate.

E infatti esplodono gli anni delle bombe, delle stragi, delle trame nere e rosse, dei servizi deviati, di Gladio, del rapimento Moro. Un’Italia che non si è fatta mancare nulla, nemmeno la sensazione di vivere dentro un thriller scritto male. La Repubblica vacillava come un tavolino dell’Ikea montato in fretta, con una gamba più corta, e noi continuavamo a illuderci che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno a sistemare tutto.

Poi arriva la luce al neon degli anni Ottanta. Le televisioni private, il consumismo, i paninari, gli yuppies, i figli dei fiori tardivi. La musica che usciva dalle radio come una promessa di felicità. Per un attimo l’Italia si convince di essere moderna, europea, vincente, quando in realtà era solo ubriaca di pubblicità e di ottimismo sintetico. Eppure erano anni belli, anni vivi. Per molti di noi, della mia età, anni impagabili. Le diecimila lire in tasca ti facevano sentire ricco, bastava poco. Inforcavamo una moto, quasi imitando Tom Cruise in Top Gun, e scorazzavamo per le strade della valle con addosso una sensazione di libertà che oggi faticheremmo persino a spiegare.

Poi la storia presenta il conto. Crisi economiche, precarietà, pandemie. Sì, pandemie vere, non quelle dei romanzi storici. Ci ritroviamo chiusi in casa come i nostri antenati durante la peste, travolti dalla paura iniziale, con la differenza che radio e televisione erano lì a farci quasi toccare con mano ciò che accadeva nel mondo. Negazionisti, complottisti, scandali, notizie contraddittorie. Tutti chiusi in casa, ma sommersi da un rumore di fondo continuo.

E oggi ne parliamo con una superficialità che fa quasi tenerezza, come se bastasse una battuta ironica per esorcizzare la paura e archiviare tutto.

Arriviamo così ai ragazzi di oggi, ventenni e trentenni che non possono avere memoria storica di tutto questo. Non per colpa loro, ma perché vivono in un mondo che brucia tutto in trenta secondi: un video, un’opinione, un’emozione. Rischiano di provare nostalgia per epoche che non conoscono, come se il passato fosse solo un filtro vintage da applicare alla realtà.

Forse Marco Camisani Calzolari aveva ragione: ci manca la memoria lunga. Viviamo di istanti, di spot, di scroll. Nessuno si prende più la briga di aprire un libro, leggere davvero, capire che cos’è stato questo Paese, cosa hanno vissuto i nostri nonni, cosa hanno attraversato i nostri genitori. E allora, se dovessi dare un consiglio ai giovani, direi questo: chiudete per un attimo i social e aprite un libro. Perché la nostalgia è bella solo quando nasce dalla memoria, non dall’ignoranza travestita da romanticismo digitale.

Vittore Lume-Rezoli

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