Marco Confortola ha toccato il cielo con mani a cui la montagna ha chiesto in cambio i piedi. Con il Gasherbrum I, in Pakistan, ha completato la leggendaria corona dei 14 ottomila, tutte le vette più alte della Terra. Lo ha fatto senza ossigeno supplementare, come solo i più grandi. Lo ha fatto portando dentro di sé il peso di una tragedia che nel 2008 lo ha segnato per sempre sul K2, la montagna che gli ha tolto gli amici, la carne viva dai piedi, e la leggerezza dell’anima. Lo ha fatto con due piedi che oggi sono solo ciò che resta di un corpo che si è ostinato a vivere, a camminare, a salire.
La sua è una storia che non può lasciare indifferenti, perché non è solo l’ennesima impresa di un alpinista estremo. È una storia di dolore e di tenacia, di sconfitta e riscatto, di limiti superati non con la forza bruta ma con una volontà che sembra scolpita nel granito.
Sopravvissuto alla strage del K2 – undici alpinisti morti in poche ore, travolti da ghiaccio, valanghe, corde spezzate e decisioni tragiche – Confortola è sceso con i piedi distrutti dal gelo. Otto centimetri in meno per parte, dita amputate, una diagnosi implacabile: “Non potrai più correre, non potrai più scalare”. Ma lui ha fatto l’opposto. Non ha mai smesso. Ci ha messo metodo, disciplina, dolore. “Ci metto un’ora per piede ogni mattina, per prepararli. Se li perdo ancora, non camminerò più. Ma la montagna non deve decidere per me”.
Quando ha messo piede sulla cima del Gasherbrum I, ha pianto. Lacrime vere, dense. Si è girato verso il K2, lì vicino, e ha ringraziato. “Se sono vivo è perché quella montagna mi ha lasciato andare”. Quell’apice di roccia e ghiaccio ha chiuso un cerchio iniziato con la morte, e riaperto con la forza della vita.
Marco ha compiuto ventisette spedizioni per conquistare le quattordici vette. Molte sono finite con un nulla di fatto: troppo freddo, troppa sofferenza, piedi troppo fragili per resistere oltre. Ma non ha mai mollato. Mai. Ha vinto grazie alla sua testardaggine da valtellinese, ma soprattutto grazie a chi ha creduto in lui: “Sono le persone accanto a me che mi hanno tenuto in piedi. Sono loro la mia forza”.
E adesso, dopo il sogno compiuto, non cerca la prossima cima. Cerca il ritorno. A casa. A sua moglie, a suo figlio, a una carbonara calda fatta con amore. Dopo settimane di acqua purificata, di sacchi a pelo rigidi come pietra, di silenzio rarefatto e pensieri ossessivi, la vita a colori è tornata. “Voglio stare con loro. Adesso è tempo di dare, non più solo di prendere”.
Sono solo una cinquantina al mondo quelli che hanno completato i 14 ottomila. Marco è tra loro, ma è anche oltre. Perché lo ha fatto da sopravvissuto, con il corpo mutilato e lo spirito intatto. È un uomo che ha sfidato il destino e ne è uscito con un sorriso, e con l’umiltà dei grandi.
Sopra le nuvole, ha trovato se stesso. Ora può tornare a camminare in pianura, finalmente libero.













