Non è un caso di editing innocente, né un gesto di delicatezza interculturale: è qualcosa di più profondo e pericoloso. In una scuola primaria della provincia di Grosseto, la dirigente scolastica ha deciso di modificare il testo di “Jingle Bells” eliminando il riferimento a Gesù, sostenendo che fosse necessario per rispettare le altre fedi. Una giustificazione che suona come un alibi: perché il rispetto non consiste mai nel negare se stessi. E quando la cultura di un popolo viene smontata pezzo per pezzo, il risultato non è inclusione, ma smarrimento.
Se c’è un paradosso in questa vicenda è proprio la convinzione che togliere Gesù da una canzone, da un presepe, da una lezione, possa in qualche modo “proteggere” chi arriva da altre tradizioni. È l’esatto opposto. Le persone che entrano nella nostra comunità lo fanno perché esiste una storia, una cultura e un patrimonio di valori che ci hanno reso quello che siamo: accoglienti, sociali, comunitari. Ed è proprio la nostra matrice cristiana che ha dato forma all’idea di solidarietà, di cura del prossimo, di dignità uguale per tutti. Inclusività dettata da Gesù, verrebbe da dire senza bisogno di aggiungere note a piè pagina.
Cancellare è sempre più semplice che spiegare.
Rinunciare è più veloce che educare.
Ma una scuola non è la sede del ritiro culturale: è la palestra del confronto. Non deve “bilanciare l’inclusività”, come fosse una scatola in cui si pesano le identità, ma favorirla, offrendo strumenti per comprenderci e riconoscerci. Se Gesù diventa un tabù, cosa rimane della nostra capacità di raccontarci? Come si spiega il Natale, l’arte, i giorni festivi, l’assistenza pubblica, il volontariato, la storia dei diritti? Tutti nati e sedimentati da un humus culturale ben preciso.
La dirigente non ha cancellato un passaggio in una canzone: ha rifiutato l’insegnamento della nostra cultura e delle nostre abitudini. Ha negato ai bambini – italiani e non – l’opportunità di capire perché questa comunità somiglia a com’è. Quali sono le radici che tengono insieme un Paese che oggi pretende di accogliere, ma spesso dimentica di raccontarsi.
L’inclusione reale non teme il proprio nome, le proprie tradizioni, i propri simboli.
Le minoranze non si difendono eliminando le maggioranze.
Il rispetto non si misura in cancellature.
Se il futuro di una società si costruisce sulle paure, basterà poco per cancellarla. Se invece si costruisce sulla conoscenza, sulle parole spiegate e non omesse, allora sì che potremo davvero camminare insieme – e cantare insieme – qualunque sia il nome che ognuno porta nel cuore.
Jésus caviardé
Parfois, la censure n’a pas besoin de chars ni d’un bûcher place publique : un feutre et une circulaire suffisent. C’est arrivé dans une école primaire de la province de Grosseto, où la cheffe a eu la brillante idée de “nettoyer” Jingle Bells en effaçant Jésus. Au nom du respect des autres religions, paraît-il. Sauf que supprimer, ce n’est pas respecter : c’est flipper. Et quand on flippe de sa propre identité, c’est qu’elle est déjà en PLS au fond du couloir.
Parce que le truc est simple : si celui qui arrive mérite du respect, celui qui accueille n’a pas à disparaître. L’Italie, ce n’est pas une page blanche réécrite à chaque frilosité administrative. Elle a des racines, visibles, reconnaissables. Et si aujourd’hui on parle inclusion, droits et solidarité, c’est bien grâce à ce patrimoine culturel et spirituel qui porte un nom très précis : Jésus-Christ. Pas un détail à gommer pour faire joli à Noël, mais la source même de cette tolérance qu’on prétend sanctifier.
Rien de plus ironique : on invoque le respect en virant ce qui a inventé le respect. On brandit l’inclusion en supprimant ce qui a enseigné l’inclusion. Et l’école — supposée être le temple de la liberté et du savoir — se change en petit bureau gris de l’autocensure prophylactique.
Un chef d’établissement ne peut pas servir de croque-mort au patrimoine culturel. L’éducation, ce n’est pas arracher les racines en douce. Cette décision ne protège personne : elle fout le bordel pour tout le monde.
Les gosses italiens, qui grandissent sans connaître leur propre histoire.
Les gosses étrangers, accueillis mais pas initiés à ce qui les accueille.
Les familles, persuadées que Noël est encore un récit et pas une crampe embarrassée.
La vérité, c’est que notre culture ne demande pas de génuflexion ni de conversion express. Elle demande juste d’être nommée, expliquée, assumée. Parce qu’on peut débattre de tout — surtout en France on adore — mais on n’éduque pas sur ce qu’on n’a même plus le droit d’écrire.
Jésus n’est pas un gros mot à rayer.
C’est la raison pour laquelle nos sociétés savent encore parler de paix, solidarité, pardon.
Si on censure ce qui a enseigné l’inclusion, il ne restera qu’un mot creux dans un obscur projet triennal.
Alors la vraie question est simple et pique un peu :
Ce n’est pas la chanson qui a perdu Jésus… c’est nous qui avons perdu les couilles de le dire.





