Oggi, aprendo Facebook, mi sono imbattuto in un post – mi viene da dire demenziale – che si felicitava per l’arresto di una giovane pacifista che, seduta in terra, teneva in mano un cartello con scritto: “Basta guerra e violenza”. Lo definisco demenziale perché solo uno con poco cervello può essere a favore della guerra e della violenza.
La storia non si ripete, dicono, ma certe volte sembra solo che cambi la marca delle manette. Nel 1940 lo studente Mario Magri fu arrestato e ucciso durante gli interrogatori dal regime fascista perché osò dire che la guerra era una follia. Oggi gli studenti che dicono la stessa cosa vengono marchiati come estremisti, schedati come “pro Pal”, trattati come se la pace fosse un virus da contenere.
E il potere, qualunque potere, reagisce sempre allo stesso modo, con la stessa allergia, la stessa orticaria morale: chi rifiuta la violenza diventa automaticamente un sospetto.
Magri non voleva morire né far morire, e per questo fu trattato come un nemico. Greta Thunberg non vuole che altri muoiano, e per questo viene arrestata. Gli studenti che chiedono la fine dei bombardamenti vengono insultati come se fossero complici dei bombardieri. Perché il trucco è sempre quello: invertire la realtà, trasformare chi denuncia la violenza in un problema e chi la esercita in un garante dell’ordine.
È un meccanismo vecchio come il potere stesso: quando qualcuno dice “basta sangue”, il potere sente “basta a me” e allora reagisce, colpisce, distorce. Perché la pace è pericolosa, la pace è destabilizzante, la pace è un dito puntato contro la menzogna.
E così oggi, come allora, chi protesta non è giudicato per ciò che dice, ma per ciò che mette in crisi: la narrazione, la facciata, la comoda illusione che la violenza sia inevitabile.
Magri oggi sarebbe uno di quei ragazzi trascinati via da un corteo, uno di quelli che tengono un cartello scritto a mano e vengono trattati come se avessero in tasca un ordigno. Uno di quelli che dicono “non nel mio nome” e vengono accusati di tradimento. Perché la pace, quando è vera, quando è scomoda, quando non si limita a essere un hashtag, diventa automaticamente un atto di disobbedienza.
E allora il parallelo non è un esercizio storico: è un’accusa. Non contro un governo o un’epoca, ma contro un riflesso eterno del potere: la paura di chi non si inginocchia davanti alla violenza.
Perché la verità è semplice e feroce: chi protesta contro la guerra non è mai il problema, è la prova vivente che il problema è altrove.
E ogni volta che uno Stato, ieri come oggi, decide che chi chiede la pace è un nemico, sta solo confessando la propria colpa. Non serve più il manganello: basta una parola, un’etichetta, un arresto, un titolo di giornale che ribalta tutto e fa sembrare pericoloso chi vuole fermare la morte.
Ma la storia, anche quando la seppelliscono, ha la pessima abitudine di tornare a galla. E ogni volta che un ragazzo viene zittito perché rifiuta la violenza, Mario Magri si rialza. E ogni volta che un’attivista viene arrestata perché chiede di fermare i bombardamenti, la memoria si vendica.
E allora la domanda non è se la storia si ripete: la domanda è quanto ancora sopporteremo che chi difende la vita venga trattato come un criminale, mentre chi la spegne viene applaudito come un adulto responsabile.
E allora mi chiedo: le persone che fanno commenti vergognosi nei confronti dei nostri giovani studenti che manifestano per la pace, che dicono no alla guerra, sono i discendenti di quei personaggi che arrestarono Mario, lo torturarono e lo uccisero?
Parrebbe di sì, leggendo i commenti odiosi di chi criminalizza ed etichetta come fannulloni dei giovani che dicono no alla violenza.













