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CULTURA | 11 dicembre 2025, 20:37

Torino non può perdere la sua voce: l’appello del cardinale Repole

In un passaggio storico critico per la democrazia, l’arcivescovo di Torino interviene sul futuro de La Stampa e Repubblica, esprimendo timori condivisi da una città che rischia di restare senza un presidio essenziale: l’informazione libera e radicata nel territorio

Il cardinale Roberto Repole

Il cardinale Roberto Repole

Quando un cardinale interviene sul destino dei giornali, vuol dire che la questione è arrivata al cuore della città. Torino non è solo fabbriche, storia operaia, università, cultura. È anche, da sempre, una capitale del giornalismo italiano. E oggi questa tradizione rischia di incrinarsi.

Il cardinale Roberto Repole ha scelto parole nette, senza giri di frase, per commentare il possibile trasferimento della proprietà de La Stampa e Repubblica verso soggetti lontani dal Piemonte — e forse dall’Italia. “In un momento storico molto delicato per il futuro della democrazia in Europa e nel mondo — afferma — credo indispensabile che una grande città come Torino, già molto travagliata, conservi strumenti d’informazione adeguati a conoscere la realtà e a formare l’opinione pubblica”.

È uno di quei passaggi che non lasciano indifferenti. Perché parla di democrazia, di comunità, di libertà di pensiero. E perché Torino, più di altre città, sa cosa significa perdere pezzi della propria identità. Dalla manifattura alla finanza, dai poli industriali alle sedi dei grandi gruppi, è un lento stillicidio che da anni erode il tessuto urbano e culturale.

Repole non entra nel merito della libertà d’impresa — e anzi la riconosce: “Nel completo rispetto per la libertà dell’editrice e dell’ovvio diritto di operare compravendite anche nel settore dell’editoria…”. Ma il punto non è contestare una scelta economica. È capire cosa resta a Torino se anche l’informazione la si governa da altrove.

E qui arriva il nodo: “Condivido il diffuso timore che Torino possa uscire gravemente impoverita dall’eventuale trasferimento della proprietà delle prestigiose testate a soggetti che operano lontano dal Piemonte e forse dall’Italia”. Una città senza giornali radicati è una città meno libera. Un territorio senza occhi e orecchie che lo raccontano dall’interno diventa un territorio meno vivo, meno consapevole, meno democratico.

Infine, Repole tocca la dimensione umana, quella che spesso rischia di essere cancellata dietro le logiche industriali: “Mi auguro anche che non vengano dispersi posti di lavoro e il grande patrimonio di professionalità maturato dalle Redazioni giornalistiche”. Perché dietro ogni pagina stampata ci sono persone, storie, competenze, mestiere. C’è una comunità che lavora per la comunità.

Torino oggi si sente minacciata non solo nel suo sistema informativo, ma nella sua anima. E il richiamo del cardinale è un invito a non restare indifferenti. A ricordare che non esiste democrazia senza giornalismo. E che non esiste giornalismo senza radici.

E mentre Torino discute, si interroga, si mobilita, in Valle d’Aosta regna un silenzio che fa rumore. Qui l’editoria locale — quella che ogni giorno tiene insieme un territorio complesso, autonomo, policentrico — resta un settore reietto, sopportato più che sostenuto. Un comparto che vive tra precarietà cronica, scarsa considerazione politica e un’attenzione pubblica intermittente, quasi imbarazzata.

I giornali valdostani continuano a garantire informazione capillare, presidio democratico, memoria collettiva. Ma lo fanno in un clima in cui si dà per scontato che sopravvivano da soli, senza politiche mirate, senza un confronto serio sul loro ruolo, senza un’idea di futuro. La politica regionale — sempre rapidissima a celebrare la “vicinanza al territorio” — davanti all’informazione locale si ritira in un angolo: niente visione strategica, nessuna riforma, nessun modello di sostegno moderno, nessun riconoscimento del valore pubblico di chi racconta ogni giorno la realtà valdostana.

E non è solo una responsabilità della politica: è anche della società civile, delle imprese, di chi vede l’informazione come un servizio da consumare, non come un patrimonio da difendere. Così, mentre altrove ci si preoccupa della perdita di voce e di identità, qui sembra quasi che una stampa debole faccia comodo a molti.

Ma una comunità senza giornali forti è una comunità più vulnerabile. E se non lo si capisce ora, quando l’informazione è sotto attacco ovunque, allora quando?

je.fe.

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