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CRONACA | 14 novembre 2025, 19:26

Il respiro dell’alta quota

La storia di Virginio Epis, alpino, alpinista, istruttore e uomo di una purezza rara. Dalla spedizione Monzino al gesto d’amore della nipote Laura, che ha riportato le sue ceneri ai piedi dell’Everest, là dove il suo spirito ha sempre continuato a camminare

Laura, la nipote alla quale era legatissimo, ha voluto compiere il gesto più bello e più intimo. Così Virginio ai piedi del suo Everest

Laura, la nipote alla quale era legatissimo, ha voluto compiere il gesto più bello e più intimo. Così Virginio ai piedi del suo Everest

Certe vite non hanno bisogno di fronzoli: basta guardarle negli occhi, e parlano da sole. Quella di Virginio Epis era una vita fatta di roccia, neve e silenzi che ti entrano dentro come una preghiera. E quando, nei primi giorni di febbraio, l’Alpino Virginio ha “posato lo zaino”, lo hanno fatto in tanti quel gesto tipico dei suoi: un inchino rispettoso a un uomo che non ha mai cercato gloria, pur avendone più di quanta ne possa contenere una biografia.

Novantatré anni, bergamasco di Oltre il Colle, figlio di una generazione temprata dal sacrificio e dall’onore. Una vita intera al servizio dello Stato e delle montagne, quelle vere, quelle che non ti fanno sconti. E poi quella pagina epica, scolpita nella storia dell’alpinismo: la spedizione di Guido Monzino all’Everest, 1973. Nella famigerata Zona della Morte, dove anche il respiro pesa come piombo, Virginio compì una delle più straordinarie imprese italiane di sempre, salvando tre compagni di cordata.

Non lo raccontava mai, e quando qualcuno cercava di attribuirgli chissà quale eroismo, lui sorrideva appena: “Tra alpinisti, il più forte deve sempre aiutare il più debole.” Era tutto lì, nel suo modo di stare al mondo.

E poi il resto: il 14esimo uomo al mondo sulla vetta dell’Everest, il terzo italiano di sempre. Un record che non lo sedusse mai. Alla Scuola Militare Alpina di Aosta aveva insegnato a centinaia di giovani come si vive la montagna, non solo come la si scala. A loro lasciava soprattutto quello che aveva dentro: valori etici, senso del limite, rispetto. Sì, rispetto. Perché lui non “conquistava” le cime, ci dialogava.

Virginio Epis amava le montagne come si ama una persona: con cura. Le ascoltava, ne respirava gli umori, ne rispettava i silenzi. Era affascinato dalla loro forza, ma attirato dalla loro armonia. Per questo, quando gli anni hanno iniziato a camminare più svelti di lui, quel richiamo dell’Himalaya è tornato a pulsare. E così, nei mesi scorsi, Virginio è “ritornato” là dove il suo cuore non aveva mai smesso di salire: ai piedi della Dea dell’Abbondanza, il Sagarmatha, l’Everest.

Laura, la nipote alla quale era legatissimo, ha voluto compiere il gesto più bello e più intimo. L’ha fatto dal Kala Pattar, nel vento gelido che sibila sopra i cinque mila metri, con la guglia dell’Everest davanti come un altare.

L’ha fatto senza cerimonie, senza pubblico, senza parole inutili. Solo lei, suo nonno e quel cielo sottile che lui aveva sempre cercato.

Ha aperto l’urna, e ha lasciato che le ceneri di Virginio si mescolassero all’aria d’alta quota, alle carezze del vento, alla neve eterna che lui conosceva come un vecchio compagno di viaggio. Un gesto che non ha bisogno di essere spiegato: semplicemente, lo riportava a casa.

Virginio resterà per sempre nei cuori della sua gente, della sua famiglia alpina del Gruppo Aosta, e in quello di chi ha avuto la fortuna di incrociare la sua strada. Ma soprattutto resterà là, in quell’abbraccio tra cielo e terra che gli apparteneva.

E se si potesse fermare un’immagine sarebbe proprio quella: Laura, in piedi sul Kala Pattar, mentre il vento porta lontano le ceneri del nonno. Un ultimo saluto all’uomo che sapeva parlare con le montagne.

Sempre nei nostri cuori, Virginio. Sempre in alto, come hai sempre fatto.

carlo gobbo/pi.mi.

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