Il Governo ha trovato la sua nuova gallina dalle uova d’oro: si chiama equiparazione delle accise tra gasolio e benzina.
Dal primo gennaio 2026, i due carburanti pagheranno lo stesso prelievo fiscale – 67,29 centesimi al litro – ma la “parità” vale solo per i conti pubblici: chi guida un’auto diesel, e sono milioni di italiani, vedrà i prezzi salire.
Secondo la relazione tecnica allegata alla Legge di Bilancio 2026, il gettito sarà da record: 550 milioni di euro nel primo anno, fino a toccare 2,6 miliardi entro il 2033. Una manna per l’erario, una stangata silenziosa per automobilisti e autotrasportatori.
Eppure, la direttiva europea sui Sussidi ambientalmente dannosi (SAD) non imponeva alcuna fretta: l’Italia avrebbe potuto adeguarsi entro il 2030, diluendo gli effetti. Ma il governo Meloni ha deciso di anticipare di quattro anni, in nome – dicono – della transizione ecologica.
La memoria, in politica, è corta.
Nel 2019, Giorgia Meloni tuonava dai banchi dell’opposizione contro “il pizzo di Stato sui carburanti”, accusando i governi precedenti di spremere gli italiani alla pompa. Oggi quello stesso “pizzo” viene riproposto, con un tempismo che lascia poco spazio all’interpretazione: lo Stato incassa, i cittadini pagano.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha provato a giustificare l’anticipo, definendo il taglio al vantaggio del diesel “un sussidio ambientalmente dannoso”. “Lo dobbiamo fare – ha detto – approfittando dei prezzi bassi del mercato del petrolio.”
Tradotto: è il momento giusto per aumentare le tasse, tanto nessuno se ne accorge.
La manovra, in realtà, non porta equilibrio ma convenienza per lo Stato.
Il gasolio, più consumato della benzina, garantirà un gettito complessivo maggiore.
La riduzione dell’accisa sulla benzina – appena 4,05 centesimi – serve solo a mascherare l’aumento corrispondente sul diesel.
Un gioco di specchi che somiglia più a un’operazione di cassa che a una misura di sostenibilità.
Dal mondo dell’energia arriva l’unica proposta concreta.
Gianni Murano, presidente dell’Unione energie per la mobilità (Unem), chiede che i nuovi incassi vengano reinvestiti nella transizione energetica, sostenendo i carburanti rinnovabili e incentivando i biocarburanti a bassa impronta carbonica.
Un modo per dare un senso al sacrificio dei cittadini.
Ma la realtà, almeno per ora, è un’altra: il governo fa cassa e anticipa l’Europa non per scelta ecologica, ma per necessità di bilancio.
Mentre gli italiani, tra bollette e pieni di carburante, continuano a pagare un “pizzo di Stato” che cambia nome ma non sostanza.
Il paradosso è servito: chi predicava “prima gli italiani” ora antepone prima le entrate.
Si tolgono risorse alle famiglie per riempire le casse pubbliche, si maschera da “scelta verde” quella che è semplicemente un’altra tassa.
Il risultato? Più soldi per lo Stato, meno libertà per chi lavora, viaggia e si sposta in un Paese dove fare il pieno è ormai un lusso.













