L’emergenza non ha più il tono neutro dei numeri: oggi ha i volti, le voci e le lettere disperate di chi non riesce a pagare l’affitto, le bollette o la spesa settimanale. “Povertà programmata” non è più uno slogan di protesta, ma la traduzione brutale di un sistema che — per inerzia, ritardi o indifferenza — sta lasciando scoperti diritti sociali che credevamo intoccabili.
Mentre il potere d’acquisto crolla, le promesse politiche evaporano: «Il caro vita sta colpendo sempre le stesse persone», denuncia Salvatore Barillaro, segretario Sunia Valle d’Aosta, che da anni intercetta il malessere abitativo crescente. «Ci dicono che ci sono piani, che esistono misure, che il Governo “c’è”. Ma poi arrivano cifre che sfiorano la caricatura».
Il riferimento è al Fondo per la morosità incolpevole, destinato a sostenere chi rischia lo sfratto non per scelta, ma per perdita del lavoro, malattia, separazione, precarietà. Per il biennio 2025–2026, solo 30 milioni: «Dieci milioni nel 2025, venti nel 2026. A livello nazionale. Briciole», commenta Barillaro, «quando solo nel 2024 abbiamo registrato oltre 40.000 provvedimenti di sfratto, di cui 30.000 per morosità. Che risposta è?».
I numeri, nudi e crudi, raccontano un’Italia dove più di 21.000 sfratti sono già stati eseguiti, con oltre 81.000 richieste pendenti. E decine di migliaia di famiglie che possono finire in strada da un giorno all’altro. La retorica degli annunci non ha fermato nessuno di questi camion che caricano scatoloni e dignità per l’ennesimo trasloco forzato.
La polemica del segretario Sunia tocca un nervo scoperto: «Un parlamentare percepisce oltre 5.000 euro netti al mese, più rimborsi e benefit. Il Presidente del Consiglio ha rinunciato allo stipendio da premier, ma incassa comunque quello da parlamentare e con diaria e rimborsi supera i 100.000 euro l’anno. Intanto, dicono alle famiglie di “stringere”».
In parallelo, promesse come l’abolizione delle accise sui carburanti si dissolvono. Le bollette restano alte. Gli affitti impazziscono. I diritti arretrano.
E se l’Italia arranca, la Valle d’Aosta non è un’eccezione fuori dal mondo. Il patrimonio ERP regionale è limitato, gli alloggi attesi superano di gran lunga le disponibilità; e nelle città più popolose, come Aosta, l’offerta privata si sta restringendo, anche a causa dell’esplosione degli affitti brevi e di un mercato immobiliare sempre più orientato al mordi e fuggi turistico. “Nelle domande di aiuto,” avverte Barillaro, «non ci sono solo persone ai margini. Arrivano impiegati, dipendenti pubblici, giovani coppie con contratto a tempo determinato, genitori separati. Quello che prima era definito “ceto medio” oggi vive con l’angoscia della prossima rata».
La sanità pubblica in sofferenza — liste d’attesa, carenza di medici, esodi verso il privato — si intreccia con la questione abitativa e produce una spirale: se ti ammali e perdi reddito, rischi la casa; se perdi la casa, perdi sicurezza, salute, lavoro. Il cerchio si chiude, e sempre più stretto. «Si parla di democrazia e di Costituzione — insiste Barillaro — ma senza casa, sanità e lavoro non esistono libertà né futuro».
Nella politica, intanto, il linguaggio è rimasto asettico: riforme, ricalcoli, rimodulazioni. Nella vita reale, invece, è cambiato il vocabolario domestico: si discute se spegnere il riscaldamento prima, si rimanda la spesa al mese successivo, si evita di dire ai figli che non si può più pagare sport, musica o gite.
Il rischio, evidente, è una società che non solo si impoverisce, ma si abitua all’impoverimento. Dove per evitare di precipitare basta tacere, adattarsi, non disturbare.
Barillaro lo dice senza giri di parole: «Questo modello non protegge i diritti: li indebolisce. Non riduce le disuguaglianze: le allarga. Non difende chi è in difficoltà: lo lascia solo».
Sotto la superficie, però, c’è un’altra Italia — e un’altra Vallée — fatta di associazioni, realtà sociali, amministrazioni capaci, cittadini che ancora credono che diritti e dignità non siano un lusso. Ma il tempo stringe. E quando il disagio abitativo diventa endemico, non è più un’emergenza: è una crisi strutturale.
La distanza tra il Palazzo e le persone, come dice il segretario Sunia, «non è mai stata così profonda». E forse, per una volta, sarebbe il caso che fosse il Palazzo a fare il primo passo. Perché saltare già lo stanno facendo in molti. Ma senza rete. E senza paracadute.













