Un cappio di lenzuolo, annodato nel bagno di una cella del padiglione C del “Lorusso e Cutugno” di Torino. Così un detenuto italiano di 45 anni ha deciso di chiudere la propria vita. È il 53º suicidio in carcere nel 2025. Cinquantatré storie finite tra le sbarre, nel silenzio, tra la disperazione e il rumore di chi continua a raccontarci che “il sistema funziona”.
«Questo è solo la punta dell’iceberg», avverte Leo Beneduci, segretario generale dell’OSAPP. «Dietro ci sono risse, aggressioni, traffici illeciti, disturbi psichiatrici, assenza di cure e di sicurezza di base». E la fotografia che ne esce è quella di un Paese che parla di “rieducazione” ma finanzia solo progetti di facciata, mentre chi garantisce l’ordine sopravvive tra turni massacranti e straordinari mai pagati.
Numeri alla mano: 62.569 detenuti al 31 luglio. 74 milioni di euro stanziati dal Governo per “formazione, orientamento e housing sociale”. La media è presto fatta: 1.182 euro a testa per attività che spaziano dalla sartoria alla falegnameria, passando per laboratori enogastronomici. «Come se in carcere non bastasse la grappa artigianale che già si produce», ironizza amaramente Beneduci.
E mentre si allestiscono cucine per chi è condannato a essere espulso “almeno sulla carta” una volta scontata la pena, gli agenti di custodia fanno straordinari gratis perché le risorse per pagarli sono finite a luglio, cinque mesi prima della chiusura dell’anno. «La mano destra del Governo non sa quello che fa la sinistra — denuncia il sindacalista — e si preferisce distribuire fondi in Sicilia, Campania, Puglia, Lombardia e Sardegna per progetti che non lasceranno nulla, se non qualche foto ricordo».
Il regolamento penitenziario parla chiaro: la sicurezza è condizione essenziale per ogni finalità trattamentale. Eppure si mettono in mano a persone violente o autolesioniste strumenti potenzialmente letali: forbici, seghe, martelli. «Non è solo un errore di valutazione, è una follia politica», taglia corto Beneduci.
Nel frattempo, nelle sezioni detentive, la polizia penitenziaria combatte a mani nude contro sovraffollamento, tossicodipendenze, malattie psichiatriche e aggressioni quotidiane. Senza taser, senza spray, senza difesa legale quando, dopo anni di processi, arriva l’assoluzione.
E lì, davanti alle celle, non ci sono le luci dei riflettori. Lì non si fanno selfie, non si posa per i giornali. Lì, il vice ministro Del Mastro non sorride. Ma quando c’è una visita ufficiale, eccolo apparire, giacca ben stirata, sguardo grave calibrato per l’obiettivo. Poi si torna a Roma, lasciando dentro gli stessi problemi, le stesse facce stanche, le stesse mani che stringono un manganello senza sapere se domani toccherà a loro.
«Prima la sicurezza del personale e delle strutture, poi il resto», conclude Beneduci. Ma questo Governo sembra aver invertito l’ordine delle priorità. E così si muore, dentro e fuori le celle. Senza che nessuno si assuma la responsabilità di dire, una volta per tutte, che il sistema penitenziario italiano è al collasso.
E qui sta la grande ipocrisia: Del Mastro appare come un attore consumato, pronto a scendere in scena per il suo atto unico — il giro delle celle, due strette di mano, la battuta studiata per i titoli dei TG — e poi via, tra flash e microfoni. Ma nei mesi successivi non arrivano nuovi agenti, non arrivano i fondi per la sicurezza, non arriva nemmeno un segno concreto di rispetto per chi rischia la pelle. È il teatro della politica penitenziaria: applausi davanti alle telecamere, silenzio assoluto quando cala il sipario.












