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Camminar pensando | 09 dicembre 2023, 10:30

Il giardiniere del Lama - Una storia fantastica

Capitolo UNO

Ph. di Mauro Carlesso

Ph. di Mauro Carlesso

È una giornata di giugno che sta per finire. Il mese di giugno intendo, ma anche la giornata.

 

Il sole cocente del Centro Italia è solo un po’ mitigato da una leggera brezza proveniente dal mare che, seppur non visibile, non è lontano. Ma dopo aver arso per tutto il santo giorno la terra, il sole a quest'ora, stanco del lavoro fatto, sembra accennare a sedersi dietro le tondeggianti colline arrotondate dal tempo e dal lavoro dell'uomo. Un lavoro, quello dell’uomo, svolto per anni. Con fatica. La stessa fatica che, almeno sembra, anche il sole comincia ad accusare dando il via alla sua quotidiana ricerca del meritato riposo proprio dietro alle colline cosicché lui, il sole, piano piano comincia ad irradiare la sua luce in modo radente, con meno forza, con meno veemenza. Quasi con compassione. 

Ed è anche di compassione che parliamo io ed Ulian al culmine dell'ennesima ondulazione che il terreno ci ha messo sotto ai piedi.

È qui che Ulian mi ha dato appuntamento, su una piccola altura contraddistinta da quattro pini svettanti verso il cielo ed un piccolo Stupa. Quando lo raggiungo, trafelato per la camminata in salita, trovo l’amico seduto a terra, forse in meditazione, sotto un cappello di paglia a falde larghe.

Conosco Ulian da tanti anni, sicuramente più di trenta, tanto che non ricordo nemmeno bene come ci siamo conosciuti. In compenso, ogni volta che ci incontriamo, capisco sempre di più il perché è accaduto. Di conoscerci, intendo. Che non è poi così facile da spiegare. Come spesso accade quando di tratta di motivare un perché anche per cose meno interessanti che non la conoscenza tra due persone. Ma forse, in questo caso spiegare perché ci siamo conosciuti è più agevole: i nostri destini si sono incrociati sotto il sole della compassione. E qui c'è da stare assai attenti ad usare questo termine perché alle volte di questa parola si abusa o, più spesso la si tace perché non è particolarmente adatta al nostro rutilante stile di vita.

Chiariamo subito che questa compassione di cui io ed Ulian percepiamo ed andiamo narrando non è altro, anche se non solo, che quell’ “Atteggiamento comprensivo e soccorrevole verso uno stato penoso: umana cosa è l'avere compassione degli afflitti (Boccaccio)” come si trova facilmente traccia nei dizionari.

E così come quel sole ardente per l’intera giornata verso sera ha compassione degli uomini, tra i quali anch’io ed Ulian siamo annoverati, anche il nostro rinnovato incontro su questo cocuzzolo alto sul territorio circostante ci suggerisce il riposo, il conforto ed il confronto e non ultimo la pacificazione con noi stessi per andare incontro agli altri, a tutti gli altri, con i nostri pensieri e con le nostre azioni: esattamente per compassione.

E so bene quanto Ulian arricchisca questo sostantivo da dizionario occidentale con quella più ampia concezione orientale e buddista che legge nella compassione ‘quella estatica pratica di sperimentare il desiderio del bene nei confronti di ogni essere senziente’.

Ci incontriamo poco ma ogni volta che accade, e sembra capitare con una curiosa casualità ogni sette anni (ed anche qui, sulla casualità ci sarebbe assai da dire...) Ulian mi racconta, quasi come in un disvelamento esoterico, una parte della sua sorprendente esistenza che con mio stupore non conoscevo. Ed anche oggi accade che Ulian mi sorprenda. Ed accade qui, su questa collina accecata da un sole ancora energico, tra pini e Stupa dove, espletati i soliti saluti e convenevoli mi ritrovo seduto a terra accanto all’amico che non perde tempo iniziando a raccontarmi con voce calma e serena la sua storia fantastica fin dagli albori a me totalmente sconosciuti.

“Da giovane ero un ragazzo inquieto” inizia a parlare guardandomi con un leggero sorriso sulle labbra. “Vivevo come i miei coetanei, mi divertivo e studiavo. Come tutti i giovani del Mondo. Quel Mondo che a noi piace ipocritamente chiamare Mondo libero. Mi piaceva divertirmi. Ed anche studiare. E per studiare vagabondai un po’ per il Mondo. Sempre quel Mondo, quello inevitabilmente pieno di contraddizioni. Non facevo niente di particolarmente stravagante rispetto a quanto facevano tutti i giovani che come me, potendoselo permettere, si sentivano liberi. Ma in quel gaudente girovagare iniziò ad accompagnarmi con sempre più tignosa costanza un'ombra dalle sembianze di una domanda: ’Ma che posso fare io, cosa serve che io faccia?’

 

Inizialmente la ritenni una domanda sciocca, banale, addirittura ipocrita come il Mondo nel quale sguazzavo e facevo di tutto per non pensarci, alla domanda intendo. Ma evidentemente di tutto non facevo per levarmela di torno perché quella banale domanda me la ritrovavo sempre tra i piedi: al mattino quando mi svegliavo era lì sul comodino accanto alla sveglia. Durante la giornata di studio emergeva dalle pagine dei libri. A pranzo e a cena era mescolata tra il cibo che con sempre meno appetito consumavo. 

 

La sera, tra le chiacchiere con gli amici o nel frastuono delle discoteche riusciva sempre a prevalere, a farsi sentire. Di notte poi mi accompagnava nelle ore insonni. Col tempo, la domanda era diventata una vera tortura. Col tempo la banalità del ‘che posso fare io, cosa serve che io faccia?’ si era evoluta in ‘a chi posso essere utile io’. E questa nuova accezione dell’interrogativo, per me, non era più una questione di poco conto.

 

Era una sera fredda di fine inverno in una stanza ancora più fredda di un convitto spartano per studenti nel Nord Europa quando la risposta all’intrigante interrogativo mi sovvenne sorprendendomi per la sua chiarezza.

 

Quella sera, lo ricordo bene, uscii precipitosamente mettendomi addosso la prima cosa che trovai senza preoccuparmi della neve che scendeva copiosa. Come in una sorta di incantesimo mi ritrovai a girovagare per le gelide strade deserte della città pieno di calore. Sentivo bruciare dentro di me il fuoco dell’ombra tignosa che si stava dissolvendo come la neve che, a me pareva, si sciogliesse istantaneamente ad ogni mio passo perché la domanda aveva trovato la risposta. Una risposta assai semplice e che avevo a portata di mano forse da sempre: volevo fare il contadino.”

 

Sorrisi rivolgendo ad Ulian un’occhiata di scherno. Non potevo credere che dietro a quella prosopopea che mi aveva avvinto nell’attesa di conoscere la soluzione a quella sorta di giallo che aveva tracciato ci fosse una banalità, come io avevo subitaneamente e maldestramente giudicato.

 

“Ma dai, ma come poteva essere il contadino la soluzione ad un così alto tormento?” - gli chiesi un po' divertito. “Hai tracciato un percorso così avvincente che presupponeva un finale più importante” - usai proprio pomposamente l’aggettivo importante- “per poi dirmi che la tua vita si sarebbe realizzata lavorando la terra… ma dai Ulian, mi sembra un po' pochino…”

 

Seduti accanto, sulla prominenza di quel colle all’ombra degli sparuti alberi contorti dal vento, Ulian colse il mio sorriso tra l’ironico ed il deluso, si avvicinò cingendomi con un braccio le spalle e volgendo lo sguardo all’orizzonte stese l’altro braccio con ampio gesto circolare rivolto ai campi sottostanti riprendendo a raccontare impassibile: “Come tutti sanno il bisogno primario dell’essere umano, insieme a quello di riprodursi, è quello di nutrirsi. Senza cibo l’uomo non si riproduce. Senza riprodursi l’uomo scompare. E senza la presenza dell’uomo la Terra oggi, perderebbe quell’elemento sostanziale che attraverso la millenaria illusione religiosa, deistica, panteistica e filosofica sostiene suo malgrado, quel mantello che avvolge l’intero Globo come uno degli strati dell’atmosfera indispensabili per l’attuale sopravvivenza della Terra stessa.

 

Il cibo quindi è la cosa più importante di cui l’uomo e la Terra hanno necessità. E chi può produrre cibo se non il contadino?”

 

Ammetto che lo strano miscuglio tra riflessione illuminata e banalità mi lasciò perplesso, da Ulian non mi aspettavo una simile e quasi vanesia semplificazione.

 

Continuava a mantenere il braccio sulle mie spalle e lo sguardo alle coltivazioni sotto di noi dove, come operose formiche si intravvedevano gli uomini ormai al termine della giornata di lavoro tra gli ordinati filari di vite e tra il blu delle siepi di lavanda.

ph. Mauro Carlesso

Il sole cominciava ad essere un baluginio rosso dietro la teoria di colline oltre le quali si poteva immaginare la piatta tavola del mare. Il caldo era mitigato dalla brezza che le fronde contorte dei pini producevano. Attorno a noi nessuno. Attorno a noi silenzio. Mi sembrava di condividere con Ulian una sorta di estasi pur nella vacuità di un semplice incontro. Mi sentivo partecipe di un’emozione pari a quella ben descritta dal poeta cinese Li Po: “Sediamo insieme, la montagna e io, finché rimane soltanto la montagna”.

Ulian indugiava nel silenzio e forse proprio in quel tempo sospeso, in quell’aria, quel cielo ed in quella luce foriera di vita compresi che fare il contadino per Ulian non era affatto la banalità che pensai in un primo momento. Fare il contadino per Ulian significava rinnovare la propria vita, anzi viverne una seconda perché poi da quella seconda ne sarebbe scaturita un’altra, ed un’altra ancora come un Karma ben pianificato. Mentre mi avviluppavo in questi pensieri Ulian riprese a parlare.

“Decisi di lasciare la fredda città nordica. Abbandonai gli studi, anche se mi mancavano pochi esami alla laurea e rientrai frettolosamente in Italia. Il contadino doveva mettersi al lavoro. Subito. Ma dove?”

 

Ci alzammo in piedi per incamminarci lungo il declivio prativo che, poco più in basso raggiungeva i primi filari di lavanda.

Camminavamo lenti sulle zolle rosse riarse dalla siccità, storditi dal profumo inebriante che si levava dalle spighe di lavanda che sfioravamo.

La vista era il senso che godeva della luce e dei colori, l’olfatto poteva apprezzare il penetrante profumo e l’udito era stimolato dal ronzio delle migliaia di api che in questa luce serotina completavano il quotidiano lavoro di raccolta.

 

“Tornai a casa dai miei” -riprese- “ed il giorno stesso iniziai a fare qualche telefonata. Non sapevo bene chi chiamare, ma sulla rubrica cartacea (i cellulari erano di là da venire…) spuntavo uno ad uno i nominativi che contattavo. Erano tutti amici o conoscenti di famiglia ed il giorno dopo avevo già una rosa di tre posti nei quali recarmi per iniziarmi alla compassionevole arte della produzione del cibo. Non scelsi nessuno dei tre, decisi invece di fare pratica da ognuno di loro, un po' da uno, un po' dall’altro ed un po' dall’altro ancora. Forse i miei maestri accettavano questa turnazione per loro poco produttiva perché erano amici di famiglia e immaginavano di divertirsi nel veder faticare il loro figlio giramondo. O forse invece perché avevano capito che dentro di me si annidava un contadino un pochino diverso e che valeva la pena osservare con curiosa attenzione.

 

Da quel giorno di fine inverno andai avanti a lavorare dai tre possidenti per un paio di stagioni. Il tempo sufficiente a farmi non solo le ossa ma anche una cultura approfondita su come ci si deve rivolgere alla terra oltreché dal punto di vista pratico anche da quello culturale. In poco tempo, aiutato e sostenuto da questi tre santi uomini capii che ero pronto. Si, ma pronto a fare cosa?

 

Mi ero abituato a vivere in modo spartano, nelle baracche ai margini dei campi condividendole alle volte con altri faticatori ma sovente da solo. A casa tornavo raramente. Mangiavo quel che la terra mi restituiva. Ero cotto dal sole del Mezzogiorno. Mi sentivo un pezzo della terra che lavoravo. E mi sentivo bene e meglio. Selvaggiamente meglio e soprattutto, come ti dicevo, mi sentivo pronto.

 

Era l’imbrunire quando compare Anania mi raggiunse alla casupola. Stavo arrostendo una melanzana e sorseggiando un bicchiere di vino corposo, tannico e terreo come il suolo sul quale ero seduto. Mi disse che domani sarei dovuto tornare a casa ad attendere la telefonata di mia sorella, che era chissà dove, la quale mi avrebbe comunicato qualcosa di importante (ma cosa poteva essere più importante della Terra?). Dividemmo la melanzana e bevemmo un paio di bicchieri di vino. Compare Anania rimase a dormire tra le stoppie. Sembravamo due antichi personaggi della Deledda. (1 continua)

Mauro Carlesso scrittore e camminatore vegano

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