IL MARCHIO DI ROMA: MUSSOLINI IMITA NAPOLEONE
Imitando Napoleone che aveva istituito le Département de la Doire riunendo i circondari di Ivrea e di Aosta nel periodo dal 1801 al 1814 ponendo a capoluogo Ivrea, Mussolini a far data dal gennaio 1927 istituisce la Provincia di Aosta accorpando i circondari di Aosta e di Ivrea con 186 Comuni e circa 250.000 abitanti. Apparentemente la Valle d’Aosta riconquista il prestigio del Ducato e l’assetto di Provincia tra la Restaurazione del 1814 e l’Unità del Regno (1861), ma in effetti Mussolini avvia una pesante colonizzazione seguita da oppressioni politiche, distruzione della cultura locale da sempre francofona, storpiatura in pessimo italiano dei nomi attribuiti da secoli a Comuni come Courmayeur (Cormaiore nel 1939), Pré Saint-Didier (San Desiderio Terme nel 1939), Quart (Quarto Praetoria nel 1929), Morgex (…Morgiasso nel 1929), Allain (Alleno nel 1939) , Brusson (Brussone nel 1939 ), Doues (Dovia d’Aosta nel 1939) , Ollomont (Ollomonte nel 1939), Pontboset (Planboseto nel 1939), ecc. ecc. . I vari podestà da Giuseppe Cajo a Giuseppe Fusinaz, a Giulio Ettore Marcoz e Luigi Ramallini si mostrano ligi verso il potere calpestando la lingua madre, interdicendo l’emigrazione, abbandonando l’agricoltura di montagna, chiudendo luoghi di cultura autonomi, cercando cioè di rimuovere le radici storico-culturali della Vallée: il partito fascista diventa praticamente una “fazione” avversa per princìpio a l’identità valdostana. Invece di favorire una giusta integrazione tra popolazioni diverse, lingue diverse, costumi diversi il regime serve una vocazione nazionalista priva di scrupoli culturali e decisa ad imprimere nella nuova Provincia non solo la storia, ma anche il marchio di Roma. Da un maestro di scuola, che aveva conosciuto l’emigrazione e l’emarginazione in Svizzera, potevamo aspettarci un diverso approccio alle nostre secolari Comunità Italiane: purtroppo, la necessità di saldare il potere centrale alle rinnovate istituzioni nazionali chiudeva la porta persino ad ogni ragionevole compromesso. L’unico equilibrio accettato era quello di una italianità imposta nel nome di un destino nazionale ancora in itinere specie dopo l’assassinio dell’on. Giacomo Matteotti. Di fronte ad una tumultuosa immigrazione, già iniziata durante la prima guerra mondiale con l’apertura dell’Ansaldo, cambiano gli stili di vita e le esigenze di molte migliaia di immigrati con i loro bisogni abitativi, i dialetti delle terre di origine, le tradizioni familiari: questo mutamento epocale poteva essere un fattore positivo sia dal punto di vista economico che culturale perché le comunità multietniche sono capaci di grandi progressi e di spazi culturali aperti, così utili per migliorare la stessa visione di un futuro condiviso, ma esso si è risolto in modo assertivo, con logiche “ad escludendum” pur di mettere in mostra – accanto ad opere pubbliche – come le caserme, le scuole elementari, il liceo, le poste ed il palazzo del popolo dell’attuale piazza della Repubblica, una bella lupa romana che guarda ostile verso la frontiera.
LA RETORICA DEL FASCISMO E L’INIZIO DELL’ALCESTI DI EURIPIDE
La retorica del fascismo, il richiamo ai grandi segnali ed ai resti dell’Impero Romano e della “Civitas latina” non lasciano spazio neanche ad un formicolio d’idee che non sia l’esaltazione dell’Urbe guerriera, immortale, lavoratrice, Italiana. Il ceppo valdostano – che pure aveva pagato un grande tributo in battaglia durante il primo conflitto con 1557 caduti, 3600 feriti ed 850 prigionieri sacrificando molte vite del Battaglione Aosta del 4° Alpini sul Monte Solarolo e sul Monte Vodice con il riconoscimento della Medaglia d’oro al valore – mantiene la maggioranza numerica, ma viene estromesso dalla gestione dell’economia locale sottomessa direttamente agli ordini del Federale di turno. Mentre all’inizio dell’Alcesti di Euripide la Morte dichiara: “Ricevo maggior onore dai morti giovani” nel nuovo percorso nazionalista si dimentica che i figli della Valle sono caduti invocando “Maman” e la Grande Patrie Italiana: si vuole eliminare persino il vago concetto di “Petite Patrie”. La Città di Aosta sembra un corpo ultroneo rispetto al resto del territorio valligiano. La lingua francese diviene una linea di confine e di demarcazione: era lo strumento per la valorizzazione di un patrimonio tipico della Vallée, funzionale al retaggio dell’antico Ducato, ma ora pare costituire il tramite di una netta divisione tra chi è fascista e dunque “italianizzante” e ciò che comunque resta valdostano malgrado una inaudita depravazione politica.
IL FUTURO NON PUO’ ESSERE ROVINATO DAL PASSATO: QUAL’E’ IL POSTO DELLA VALLE D’AOSTA NEL MONDO?
Certamente non il “rattaschement” alla Francia, bensì per i suoi legami fisici, geografici e storici con la Savoia – a ragion veduta – non dovrebbe destare stupore l’ipotesi puramente accademica di un posto della Valle d’Aosta tra i Cantoni Svizzeri non già per rifiutare l’immenso patrimonio italiano, ma per riconoscere una vecchia mira dei duchi di Savoia sull’indipendenza di Ginevra considerando che i territori Savoiardi circondavano interamente il territorio vescovile e che i Duchi in più occasioni dal XIII° al XVII° secolo si servirono più volte dei Mammelucchi per impadronirsi della città, senza riuscirvi. Sono note, comunque, le simpatie di Lino Binel, di Joseph Bréan, di Severino Caveri e di Emile Chanoux per una possibile soluzione “Svizzera” più ideale che reale vista l’impossibile realizzazione di un cambio di frontiera che non rispettasse i vecchi confini e la barriera delle Alpi. Lino Binel, nella “Cronaca di un valdostano”, ricorda le letture fatte insieme a Chanoux commentando le opere di Mistral, Bazin de Montenac e tutto ciò che si poteva apprendere sulla formazione e persino sulla Costituzione della Federazione Elvetica…”Dove alcuni rudi montanari bernesi, limitati e testoni, avevano saputo imporsi contro gli Asburgo e poi contro i Savoia; … avevamo la coscienza e la convinzione che propugnavamo una causa giusta, non solo locale, ma universale”. Chanoux, dopo il 21 giugno 1941 quando a Excenex muore Tréves il vero animatore della Resistenza valdostana degli ultimi 20 anni, prepara gli scenari per conquistare una autonomia culturale e politica: nell’”Essai sur l’organisation administrative de notre Pays” avanza l’idea di una Valle d’Aosta indipendente oppure di un vero e proprio cantone all’interno della Federazione elvetica.
UNA PICCOLA CONSIDERAZIONE SUL DESTINO DELLA SAVOIA E DI NIZZA
La storia, si sa, viene scritta dai vincitori; è possibile, tuttavia, fare una piccola considerazione sul destino della Savoia – e perché no? di Nizza – viste le disposizioni categoriche dell’art. 44 del Trattato di pace internazionale firmato tra i Paesi belligeranti non rispettate dalla Francia: i Savoiardi ed anche i Nizzardi dovrebbero poter esprimere la loro volontà in merito alla sovranità della loro terra sotto l’egida dell’ONU; ma questo auspicio cozza contro un nazionalismo di sicuro successo ancorato alla “grandeur” della Francia.
IL DESTINO SABAUDO ED ITALIANO DELLA VALLE D’AOSTA
Il destino sabaudo ed italiano della Valle d’Aosta non era in discussione e non lo è mai stato sia per volontà di Emanuele Filiberto che, sposando la sorella del Re di Francia Enrico II° Margherita di Valois, si dichiarava neutrale tra Spagna e Francia che per la ferma convinzione di Eugenio IV° di Savoia. Costui, del ramo cadetto dei Savoia-Carignano e bisnipote del duca Carlo Emanuele I°, passato al servizio dell’Imperatore d’Austria Leopoldo I° si firmava Eugenio von Savoy e diventò famoso per aver salvato Vienna dalle milizie Turche di Maometto IV° il 12 settembre del 1683 e per la conquista di Belgrado cinque anni dopo. Ebbene, Eugenio IV° era molto legato a Vittorio Amedeo II° che, pur di sottrarsi all’influenza della Francia non esitò ad aderire alla Lega di Augusta sorta nel 1686 per contrastare sia le brame di Luigi XIV° sia in genere l’espansionismo francese sempre propenso ad invadere i territori piemontesi. L’esagerata promozione di un nazionalismo spinto per salvaguardare l’italianità della Valle d’Aosta nascondeva in realtà il disegno di distruggere in tutte le sue valenze l’intramontanismo culturale e sociale ereditato in lunghi secoli di Ducato: del resto, anche Casa Savoia fece ben poco per tutelare quello che era anche un loro privilegio a fondamento del potere esercitato sin dal XII° secolo.