Gli esercizi spirituali non sono «una resa dei conti» o «un’autoflagellazione», ma un’opportunità di stare un po’ in disparte con il Signore e riposarsi dalle stanchezze di «un anno di iperattività che ci riduce a uno straccio». Ecco il senso delle meditazioni che don José Tolentino de Mendonça ha iniziato a proporre a Papa Francesco e alla Curia romana sul tema «Elogio della sete».
Nella casa Divin Maestro ad Ariccia — dove anche quest’anno si svolgono gli esercizi che si concluderanno nella mattina di venerdì 23 — il Pontefice è arrivato alle 16.45 di domenica 18 febbraio, su uno dei due pullman partiti dal Vaticano con gli oltre settanta partecipanti al ritiro. Ad accoglierlo, con il predicatore, l’arcivescovo Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa pontificia, e la comunità religiosa della Società di San Paolo di Ariccia.
Già nella riflessione introduttiva, svolta subito dopo l’arrivo, il predicatore ha presentato i contenuti essenziali delle meditazioni, facendo notare che siamo tutti «apprendisti dello stupore». Il riferimento è stato all’incontro di Gesù al pozzo di Giacobbe, nel quale, ha affermato, «la samaritana si ritrova a essere sorpresa».
Il Signore «rompe con la prevedibilità sonnanbula delle nostre traiettorie, delle nostre cieche navette tra la casa e il pozzo, e ci dice: “dammi da bere”» quando forse noi neppure abbiamo «scoperto che il nostro pozzo può servire a questo».Gesù, ha spiegato, sceglie di passare per la Samaria per «raggiungere anche i dissidenti, i figli distanti, le periferie, il mondo che è al di là delle frontiere di Israele». E «stanco siede sul bordo di un pozzo». Così assume «l’atteggiamento di colui che mendica», perché «non è solo l’uomo a essere mendicante di Dio, anche Dio è mendicante dell’uomo».
Per dirla con Simone Weil, «Dio attende come un mendicante davanti a qualcuno che forse gli darà un pezzo di pane; il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore». Dunque, ha rilanciato il predicatore, «possiamo capire il dialogo di Gesù con la samaritana, e con noi, solamente se teniamo davanti agli occhi il dono senza limiti che Gesù fa di sé sulla croce».
Con una annotazione: «Al pozzo di Giacobbe, come anche al tribunale di Pilato, il sole segna il mezzogiorno, l’ora centrale del giorno, il punto che determina il passaggio da una parte all’altra della giornata. Il mezzo del tempo, che segna un prima e un dopo. Il mezzo del cammino e della vita. Non una semplice indicazione di cambiamento cronologico, bensì la raffigurazione del passaggio che Gesù attua e inscrive in noi.
Lui che ci porta dal tempo della storia al tempo della salvezza». Per questo «anche se l’orologio può segnare altre ore, spesso nella nostra vita è mezzogiorno: quando nasciamo e rinasciamo, ci mettiamo in ascolto della nostra sete, ci accostiamo alla fonte in silenzio, nell’entusiasmo del riso e nella notte di tante lacrime, nel lavoro e nella condivisione, nei gesti e al di là dei gesti, e ogni volta che lasciamo che Gesù ci disseti».
Dobbiamo convertirci, ha suggerito, «a questo Dio che in Gesù viene a cercarci non con spettacolari prove convincenti, ma nella vulnerabilità della nostra carne, con la sua debolezza». Chiedendoci come rispondiamo a Gesù che ci domanda da bere: «Gliene daremo? Ci daremo da bere gli uni gli altri?». Consapevoli sempre che «è il Signore che prende l’iniziativa di venire incontro a noi, arriva prima lui al pozzo».
E, come fa con la samaritana, pur dicendo «il vero della sua vita, non la umilia né la paralizza». Di qui l’invito a sentirsi abbracciati per toccare con mano che «Dio sa che noi siamo qui», ha ribadito il sacerdote citando una storia dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano tratta da Il libro degli abbracci. Senza «fare l’apologia di un Alzheimer spirituale», ha detto dopo una lunga citazione di Tolstoj, don Tolentino de Mendonça ha rilanciato il suggerimento del poeta Fernando Pessoa a «disimparare per vedere la realtà».
E ha esortato: «Disimpariamo per imparare quella grazia che renderà possibile la vita dentro di noi; per imparare fino a che punto Dio è la nostra radice, il nostro tempo, la nostra attenzione, la nostra contemplazione e la nostra compagnia, la nostra parola, il nostro segreto, il nostro ascolto, la nostra acqua e la nostra sete».
«La scienza della sete» è stato il filo conduttore della seconda meditazione proposta nella mattina di lunedì 19 a partire dall’ultima frase pronunciata da Gesù nell’Apocalisse: «Chi ha sete, venga». Ecco che, ha affermato il predicatore, «l’invito è stato fatto, ma Dio sa quanti ostacoli interiori ci frenano, quanti blocchi gli frapponiamo, quante derive ci ritardano».
Spesso «il nostro conversare con Dio non va al di là di un fraintendimento, crediamo ma non completamente». Per questo il sacerdote ha posto l’accento sulla forza della parola «desiderio» per far presente lo stile che bisogna assumere. La sete, ha proseguito il predicatore, «è un dolore che si scopre a poco a poco dentro di noi». Riferendosi anche alla pièce di Ionesco La sete e la fame, don Tolentino de Mendonça ha delineato «la parabola della nostra sete», tra «insoddisfazione e disaffezione per l’essenziale incapacità di discernimento».
Al «consumismo commerciale», ha detto, va aggiunto anche «il consumismo nella vita spirituale». E può essere di aiuto, in questa linea, l’affermazione che «l’essenziale è invisibile agli occhi» lanciata da Saint-Exupéry in quella «sorta di mistagogia contemporanea» che è Il piccolo principe. «Ci sono molti modi di ingannare i bisogni che ci danno vita e di adottare un atteggiamento di evasione spirituale senza però mai prendere coscienza che siamo in fuga» ha affermato. Invitando a chiedersi piuttosto: «Com’è il nostro passo: teso e frettoloso o umile e disteso?».
La conversione, ha messo in guardia il sacerdote, «non consiste in belle teorie ma in decisioni che risultino da un’effettiva presa di coscienza dei nostri bisogni».In conclusione, il predicatore ha ricordato che «Gesù sa che un semplice bicchier d’acqua che diamo o riceviamo non è banale. È un gesto che dialoga con dimensioni profonde dell’esistenza. Portiamo in noi tante seti e la sete è un patrimonio biografico che siamo chiamati a riconoscere e di cui essere grati».