Percorrendo le strade della città, non mi premuro solo di seguire la mia corsia senza distrarmi troppo, di dare la precedenza ai pedoni e rispettare gli stop: guardo anche il manto stradale, monitoro il piano asfaltature, cerco i tombini rumorosi da segnalare alla centrale unica di pronto intervento. Ma soprattutto, scopro a ogni passaggio una microtrincea in più, uno scavo per la costruzione, la manutenzione, il ripristino di importanti sottoservizi come il metanodotto, il teleriscaldamento, le fognature, l’acquedotto. I cittadini si indignano – con ragione – per le continue interruzioni del manto stradale, deplorano l’approssimazione con la quale spesso si risanano le ferite inferte all’asfalto con colate irregolari di malta rapida, spesso di color rosa che, per carità, con il nero sposa bene ma…
Certo, io so che alcuni interventi sono necessari e urgenti, altri pianificati da anni e finalmente in corso di realizzazione, con ricadute positive quasi immediate per la cittadinanza, altri ancora sono governati da discutibili – ma ahimè in vigore – leggi nazionali che permettono scavi plurimi per le stesse finalità a imprese diverse purché accreditate e dunque da una parte sono più tollerante, dall’altra mi muovo per rimediare concretamente, ove e quando possibile.
Poi, a margine di questo, inizio pure a sognare soluzioni avveniristiche per la città del futuro.
Così mi immagino che inventeranno dei tubi intelligenti, capaci di insinuarsi autonomamente nel sottosuolo e di collegare due o più punti distanti del tessuto urbano, intercettando ed eludendo gli ostacoli, disponendosi in sicurezza nei tunnel tecnologici – ove presenti – senza toccare le superfici stradali.
Mi piace questo esercizio di retorica a sfondo fantascientifico, e allora vado oltre, non senza ripensare agli esempi che la letteratura ha descritto nel passato e il cinema tradotto in immagini.
Non spero in città sotterranee come in Metropolis di Fritz Lang, troppo meccaniche, schiavizzanti, oscure, roba per topi. Neppure mi immagino un’unica megalopoli che si estende su tutta la terra come scriveva Isaac Asimov nel suo Ciclo della Fondazione, con quartieri divisi per differenti culture, avvolta da una cupola di vetro che simula il giorno e la notte e l’avvicendarsi delle stagioni, le grandi fasi del nostro tempo vita: perderemmo il fascino dell’imprevisto, presente nella ciclicità dei ritmi naturali e poi da quali culture dovremmo dividerci visto che in ciascuno di noi scorre sangue arabo, africano, mongolo e così via?
Sogno piuttosto un macchinario che, automaticamente, taglia un cerchio d’asfalto, effettua uno scavo di profondità sufficiente e piantuma, in pochi minuti, un albero già maturo sul ciglio di ogni strada sufficientemente larga fino a creare, in alcune aree, delle refrigeranti tettoie verdi, che gli inglesi chiamano canopy. E un altro che inverdisce verticalmente qua e là le facciate dei condomini più brutti, senza richiedere troppa manutenzione, senza attirare fastidiosi insetti per contro senza trasformare la città in una foresta artificiale.
E per abbattere gli edifici più obsoleti voglio una sostanza che li liquefa come neve al sole, senza inquinare, fertilizzando il terreno recuperato.
Non bramo le auto volanti: bastano le zanzare a tormentare i miei sonni, ma acceleratori di passo per chi fatica di più a camminare o ha fretta di raggiungere i propri cari, sedie scorrevoli per chi ha le gambe che non reggono proprio più. Però vorrei che ci si potesse fermare subito quando ci si incontra, per scambiare due parole e salutarsi, perché in ogni angolo della città ci sarà sempre qualcosa di nuovo da scoprire: è triste chiudersi in una gabbia mobile d’acciaio, anche se vola…
Ci vuole un rilevatore di rischio automatico, una specie di ingegnere virtuale che mappa la piazza in cui si vuole organizzare una manifestazione pubblica – un concerto, un cinema all’aperto, una conferenza – e poi un robot che sistema transenne e apre varchi, spalti gonfiabili, impianti di amplificazione miniaturizzati, stabili e performanti, il tutto a poco prezzo.
Credo che dovremo installare grandi abbattitori attivi di rumore davanti e sopra i locali che vogliono far festa, permettendo ai cittadini residenti di riposare in pace.
Vorrei che i giochi nei parchi pubblici dei bambini fossero dei kit modulari, dalle combinazioni più varie da affidare loro per l’assemblaggio e lo smontaggio periodico, quando vien loro voglia di cambiare e lo facessero insieme, contemperando le idee e le specificità di ciascuno.
Non vorrei che si costruissero più ospedali o scuole, ma si piantassero, e crescessero da soli in un mese secondo il disegno di un architetto creativo e pragmatico insieme, fatti di materiale biologico che dopo trent’anni degrada e va sostituito: tanto la medicina cambia, le esigenze del personale sanitario, dei pazienti e dei visitatori anche, pure il gusto estetico non è più lo stesso…
Per la scuola è diverso: occorre che prima gli insegnanti si convincano che vivere, come capita da oltre duecento anni, in caserma non aiuta l’apprendimento e neppure il loro benessere e che cambiare schemi, spazi e contesti fa vivere più a lungo e più felicemente, stanca pure assai meno…
Infine, pistole, mitra, ogni tipo di arma solo ad acqua: aiuterà a pacificare in fretta, a calmierare i bollenti spiriti nel clima torrido che ci aspetta.
Certo, sarebbe bello, ma non si illudano i sindaci di domani: non sarà meno rognoso il loro lavoro, perché si guasteranno i macchinari più avveniristici, la crescita dell’ospedale oscurerà le finestre di qualcuno e chi non sentirà più chiasso si lamenterà della troppa quiete.
Le cose cambiano intorno, ma l’uomo…