Il cannocchiale rovesciato con il quale guardiamo, dopo 77 anni, il giorno della Liberazione ci allontana sempre di più da un momento cardine della storia contemporanea e ne sfoca gli effetti, incorniciati in raffigurazioni mitologiche quanto irreali, appiattiti su stanche celebrazioni di rito – o peggio – raffreddati dall’erosione dell’indifferenza. Non fu un momento incantato quello, fu piuttosto l’epilogo di una tragedia per tanti infinita, per milioni fatale, per tutti oscura e dolorosa dove destini, sentimenti e posizioni politiche si sono mescolati in una babele di differenze.
La grande euforia per la fine della paura e per l’allontanamento di uno spirito di morte a lungo onnipresente, implacabile e repentino, si mescolava alla sete di vendetta, al rancore fratricida; i baci appassionati e gli abbracci, i sorrisi delle ragazze dalle gonne volatili e i capelli liberati anch’essi come i pensieri, i giovani aitanti generosi distributori di sigarette e barrette di cioccolata, di cui rimangono le effigie fotografate dai grandi esteti dell’epoca, coesistevano con i dolori inconsolabili delle vedove e degli orfani e dei mutilati, per i quali la primavera stava effondendo umori amari; la pienezza della vittoria provata dai capi partigiani, che stavano per assumere incarichi di responsabilità nell’età della ricostruzione aveva da contraltare la pena e la vergogna di chi, per ingenuità, ignoranza o vigliaccheria aveva militato, fino in fondo, nella parte sbagliata.
I crudeli invece non si vergognarono neppure in quel momento. Non fu una festa di un colore solo ma, come tutte le cose vere, fu piena di emozioni miste, di compresenze, di gioie e sofferenze insieme. Nella stessa nostra Valle d’Aosta non mancò in quei giorni una lotta, tra annessionisti e autonomisti, tra le tensioni verso la Francia e quelle verso l’Italia. L’energia vitale sopra le macerie però fu potente e unificatrice come un vento di bora, e ardente come lo scirocco: doveva spazzare via un’idea di uomo sottomesso, dal corpo irregimentato, costretto all’inconsapevolezza e al pensiero ottuso.
Quella forza non doveva soffiare solo per rimettere mattone su mattone, per cuocere pane, spremere uva e forgiare nuovi ponti, ma per cambiare le coscienze, ispirare loro un sentimento di piena, duratura libertà.
Ancora oggi l’uomo ondeggia tra il desiderio di avventurarsi per i campi aperti e restare al riparo, tra la voglia di spiccare il volo e d’accomodarsi in gabbia. Per ciò è necessario alimentare un vento impetuoso, perché quell’ordine d’insurrezione generale che il Comitato di Liberazione Nazionale emanò il 25 aprile di 77 anni fa non abbia ancora fine e soffi sulle nostre coscienze così che si disperdano tutti i semi di fascismo che allignano in noi pericolosamente, ogni giorno.
Che dunque le brigate partigiane di Torino, quelle di Genova e Milano insorgano ancora oggi contro la nostra stessa tendenza a tacere di fronte alle ingiustizie del mondo, a normalizzare tanto una violenza domestica quanto una strage di migliaia di civili innocenti, che spazzino la nostra tendenza a difendere i deboli e nel contempo a tutelare gelosamente i nostri privilegi che quella debolezza generano e alimentano; che il commissario di pubblica sicurezza, medaglia d’oro al Merito Civile, Camillo Renzi e sua moglie, Francesca Scaramellino, martiri, combattano con noi e in noi contro la mistificazione sistematica della realtà e la sua banalizzazione, contro l’ossessione tecnocratica chi si avviluppa nelle norme, nelle prescrizioni, nelle clausole allontanandosi dalle esigenze dei cittadini, alimentando la cultura del sospetto.
Già, anche quella sottile, erosiva tendenza a instillare il germe del dubbio nei cittadini che chiunque si occupi di cosa pubblica sia corrotto, ladro o malfattore e non viva una semplice, totalizzante esperienza di servizio è una forma di squadrismo fascista.
Che i martiri Emile Chanoux e Lino Binel ci inducano a non spendere violenze verbali sui social dietro lo scudo vigliacco degli schermi illuminati a cui siamo pacificamente, inesorabilmente sottomessi, che ci liberino dalle politiche dei colossi della comunicazione mediale, dalla schiavitù dai consumi, dall’arricchimento illimitato, dalla discriminazione tra generi, etnie, religioni, dallo strapotere della finanza, dall’oblio degli ultimi.
Le parole non sono vane, non è inutile rievocare, in questa sede, la fine di un incubo universale avvenuto 77 anni fa: le parole, quando intrise di spirito di verità, sono corpo vivente, generano comportamenti e fanno rinascere nel presente esperienze passate come se il tempo fosse sconfitto, per accrescere consapevolezza, orientare il pensiero, soprattutto quello delle giovani generazioni.
E poi, lo vediamo in questi giorni, silenziare le parole apre le porte alla Bufera:
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
…Le sirene degli allarmi, i sibili dei razzi, gli scoppi di bombe i suoni sordi dell’avventura collettiva più estrema, la più pericolosa per il genere umano e che eppure affascina ancora. Il male è ovunque e resta, secondo Jean Baudrillard, un oscuro oggetto del desiderio.
(ancora) tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta…
La lotta continua, anche ora, e continua insieme perché non l’individuo, ma l’intero popolo ha memoria e su questa memoria fonda il suo futuro, incerto ma teso, verso una piena, universale libertà.