Nell’estate del 1978, l’anno del sacrificio di Aldo Moro, mi trovavo a Lido di Camaiore, nella Toscana delle mie origini. Reduce dall’esame di terza media – una mini maturità, per quel tempo – decisi che dovevo guardare il mondo dei grandi senza sentirmi una spia, un voyeur, ma da aspirante adulto. Per ciò decisi di acquistare un libro che si chiamava “Sei condanne, due evasioni”, con la curatela di Vico Foggi e la prefazione di Giuseppe Saragat, una copertina rosso fuoco e una foto centrale che raffigurava la facciata di un carcere.
Niente di balneare, insomma. Presi quel volume scegliendolo tra gialli e fumetti in uno di quegli espositori girevoli disposti lungo la passeggiata, soffocati da salvagenti, maschere da sub e pistole ad acqua perché mi era piaciuto il nuovo Presidente della Repubblica appena eletto, e tra quelle pagine si narrava un pezzo della sua avventurosa giovinezza.
Guardando in una televisione da colori ancora sfocati e irreali, mi aveva subito affascinato la vitalità esuberante e sincera di Sandro Pertini: un anziano omino dalla voce tremula e le intonazioni evolute, teatrali e assertive come quelle di un tenore impegnato in un recitativo. Mentre scandiva le parole gargarizzando ogni erre, piantando a terra tutte le pi in cui inciampava, con le braccia gesticolava a bandiera e poi scuoteva la testa come sotto scossa.
Da Presidente della Camera l’avevo registrato tra tanti notabili di cui il telegiornale faceva cenno, ma senza coglierne la straordinarietà: una volta consacrato dall’82,3% dei grandi elettori (percentuale mai raggiunta da nessuno né prima, né dopo, salvo prossime smentite) la sua umile grandezza diventò, tanto ai miei occhi quanto al resto della nazione, molto chiara e, soprattutto, indelebile. Parlano di lui oggi come di un’icona pop: non m’intendo di etichette, ma di certo la fermezza un po’ squadrata del suo corpo, gli occhi liquidi affondati nelle lenti spesse di un grande miope come Magoo, l’espressività facciale limitata, una delle 750 pipe che collezionava sempre in bocca o in mano lo rendevano prossimo a un fumetto, una specie di Braccio di Ferro, irascibile, carissimo non troppo rissoso, sebbene in gioventù fosse stato un valoroso combattente e io non avrei voluto essergli nemico.
E un profilo così caratterizzato, una loquacità tanto spontanea quanto imprevedibile financo, talora, temeraria s’avvicina al sentire delle persone, che cercano intensità. E vera e generosa era la commozione quando vedeva un bimbo sprofondare nelle profondità della nostra terra, la sfrontata veemenza con la quale si scagliava contro i ritardi nel soccorrere i terremotati, l’esaltazione irrefrenabile di fronte a un gol mondiale. Ma un aspetto vogliamo marcare di questa persona: il suo inossidabile attaccamento a una fede.
Il sacerdote iniziatore al credo socialista del giovane di Stella (SV) fu Adelchi Baratono, il suo professore di filosofia al liceo Chiabrera di Savona, impegnato a battersi contro l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, ad adoperarsi sempre per l’unità del movimento anche quando venne dilaniato dalla lotta tra riformisti e massimalisti, a scrivere di estetica e di pedagogia dei valori fino al 1947, quando l’“Avanti” in cui firma i suoi pezzi era diretto dall’ex allievo, Alessandro Pertini.
Ma la fede si rafforza con il sacrificio: così, dopo avere combattuto una guerra che non volle, da ufficiale solo perché in possesso di un titolo di studio superiore, dopo aver conseguito due lauree in tempo di pace, per quindici anni, quelli della meglio gioventù, questo marinaio ligure dell’entroterra errò da un carcere a un esilio, guadagnandosi il pane come lavamacchine, imbianchino, muratore nella Nizza degli anni ‘20, facendo il magazziniere in carcere a più riprese.
Si abusa di molte parole in questi tempi, tra le molte, l’eroe: credo tuttavia che nel caso di Pertini questo termine sia appropriato, e bene fece ad affermarlo Saragat, quando era lui il Presidente. Sì perché solo chi vive ai confini dell’umano può rivelarsi così tanto umano da rifiutare di essere liberato se tutti e sette i compagni di prigionia non possono fuggire con lui, a costo di pagare questa condizione con la morte…
Solo chi è capace di alleggerire il macigno della reclusione, della fame, dei soprusi umilianti grazie ai suoi pensieri sul mondo, ispirati da sentimenti congiunti e indivisibili di libertà e di giustizia sociale è libero, anche se dietro una gabbia; solo chi conserva in ogni circostanza estrema la propria dignità – quella che lo spinge a pretendere la divisa da galeotto e a tenerla sotto il materasso durante la notte, affinché al mattino la riga dei pantaloni sia stirata – sa che la bellezza salva; Solo chi rifiuta la grazia che la madre ha chiesto per lui, nel nome dell’appartenenza a una comunità di donne e uomini che perseguono precisi ideali, è un uomo di fede.
Nella sua vita di parlamentare Pertini non ebbe incarichi di governo, non amministrò ma fu garante delle regole democratiche per le quali aveva lottato, restando devoto a un pensiero della politica di caratura superiore, fatta di principi e di rettitudine esemplari, di vigilanza contro le derive totalitarie che allignano sempre e ovunque, in primo luogo nel cuore di ogni coscienza viva.
E lanciò questi messaggi soprattutto ai giovani, che amava perché, come lui diceva spesso, naturalmente imPertinenti, dunque a lui simili per assonanza, per vigore, per eccesso. Loro amavano lui, perché ne riconoscevano l’autenticità, la fede e per questa ragione, a loro volta, nutrivano fiducia in lui. La fedeltà poi è una forma della mente incarnata: Pertini non rimase solo fedele al suo credo politico, ma anche alla sua compagna di lotte e di vita Carla Voltolina, con lo stesso piglio deciso, la medesima tremolante tenerezza.
E questo spirito è universale: così fu amato in tutto il mondo da semplici e potenti.
E anche in Valle d’Aosta Sandro Pertini ha scritto pagine di piccola/grande Storia: la prima a Courmayeur, quando, nell’ottobre 1944, dopo aver attraversato il Bianco rientrò in patria insieme a Filippo Turati dall’esilio in Francia e dove ritornò da Presidente nel 1980, per rendere omaggio all’ANPI, alla guida Francis Salluard e a tutti coloro che li avevano raccolti dai boschi sotto il Pavillon e dirottati prima verso Cogne, poi a Torino e Milano, incolumi.
La seconda quando nominò Cavaliere della Repubblica, dopo oltre quarant’anni, un ex soldato tra tanti, internato, percosso e condannato a una vita infelice: si chiamava Domenico Giordano, uno dei tanti che avevano voci troppo flebili per lasciare tracce delle loro esistenze… Sarebbe morto di lì a poco, senza fare in tempo a raccontare ai nipoti e ai concittadini aostani la sua piccola storia eroica.
Non esistono, infatti, storie grandi o piccole, non ci sono protagonisti e comparse, capitani e gregari: la Storia è fatta di tutte le persone che hanno abbracciato compiutamente, con tutte loro stesse, tanto in modo eclatante quanto silenzioso, una fede.
Un mondo di soli libri non sarebbe sufficiente per contenerle tutte, ma di certo quella di Sandro Pertini fu una storia di formidabile fedeltà.