Questa primavera somiglia molto alla nostra uscita dal periodo più nero dell’umanità contemporanea: nonostante la persistenza di tutti i fenomeni atmosferici tipici dell’inverno – precipitazioni, temperature basse, venti forti di grecale – le fronde s’infoltiscono, i prati si tempestano di margherite, viole del pensiero, campanule, biancospini e tarassachi, il cielo s’anima dei cinguettii più petulanti.
Siamo prudenti, ma forse, nonostante le resistenze, si ricomincia a vivere dopo un anno e mezzo di maschere e di tempi claustrali.
Ci sono due modi, però, per uscirne fuori del tutto.
Il primo è simile a una piena di fiume, che esonda e invade confondendo case e campi, seminando fertilità ma anche devastazioni, rapimenti, perdite. È la strada dello sfogo e dell’oblio: non è capitato nulla, recuperiamo il tempo perduto, consumiamo ciò che abbiamo risparmiato per tutti questi mesi, non guardiamo l’orizzonte, ma affondiamo il capo nel trogolo e saziamoci, finalmente.
Il secondo somiglia a un pensiero che, al mattino presto, a mente sgombra e corpo quieto, si fa chiaro, si dipana con un profilo nitido, inconfondibile e realizzabile dopo un lungo tempo di gestazione durante il quale ci siamo arrovellati, tormentati, confusi pensando di non venirne mai a capo, temendo un fallimento.
Invece, inaspettatamente le variabili si compongono, i dubbi si sciolgono e il pensiero è già carne, cosa fatta: da quel momento in poi la realtà si conformerà materializzandolo, adattando qualcosa, modellandolo sullo spazio vero, ma non si torna più indietro e il problema è risolto. In quel caso, nulla di quanto vissuto nella notte alta è vanificato, il tormento è diventato testata d’angolo, la prigionia si va trasformando in uno spazio di meditazione e il dolore in forza vitale.
Si paragona spesso la pandemia alla guerra e, la sua fine, alla fase della ricostruzione: non dimentichiamo che nell’ultimo dopoguerra, insieme al boom economico e al benessere materiale conseguente, abbiamo deturpato le nostre città e sfigurato spiagge, oasi naturalistiche e intere isole, inquinato mari e infestato aria e terre.
Non è più tempo, dobbiamo invadere le nostre vite di pensieri chiari e opere leggere, che restituiscono alla natura spazi ed equilibri e alle nostre menti un po’ di libertà dalle gabbie che noi stessi ci siamo costruiti per difenderci o per sentirci al sicuro.
M’immagino quindi la città che spazza via fumi e idrocarburi, cementi a vista, barriere architettoniche e ostilità per chi è diverso – quindi l’intera umanità – e decide di vivere intensamente consumando esperienze e non suolo, recuperando relazioni, contatti, scambi, cercando il vero profitto, quello che fa guadagnare molto per distribuire di più e ricevere il centuplo.
Ci vuole passione e misura, come per modellare una buona opera d’arte: troppa energia avventata deforma idee e cose, un’accorta e insieme tesa volontà di agire per spoliazione e non per accumulazione, per tratti e non sversamenti produce una buona forma; ma bisogna essere ispirati da uno sguardo lungo, capace di andare oltre noi: questo può allungare il tempo dell’esistenza di una specie animale tutt’altro che onnipotente, ma capace di captare la presenza di un mistero nell’universo e nutrirsene, alimentando il vero bene.