CRONACA - 09 ottobre 2021, 08:00

Per l'omicidio di Giuseppe Nirta in Spagna chiesti 26 anni di carcere per Cristina Elena Toma

Pesanti indizi di colpevolezza sull'unica imputata a processo, fidanzata del commerciante pregiudicato esponente della 'ndrina che porta il suo cognome; la famiglia Nirta ha chiesto 500 mila euro di risarcimento

Una delle ricostruzione svolte dalla Guardia Civil che ha dimostrato le lacune nel racconto di Cristina Elena Toma

Una delle ricostruzione svolte dalla Guardia Civil che ha dimostrato le lacune nel racconto di Cristina Elena Toma

Ha trascorso un anno e mezzo in custodia cautelare in carcere, è in libertà vigilata da alcuni mesi ed è a processo in Spagna per omicidio volontario e detenzione illegale di armi. Nei confronti della romena Cristina Elena Toma, originaria di Honeodara, la procura della Murcia ha chiesto ai giudici una condanna a 24 anni di carcere per l'assassinio, il 9 giugno 2017, del pregiudicato e commerciante 52enne Giuseppe Nirta, originario di San Luca (Reggio Calabria), ritenuto esponente di spicco della 'ndrangheta e vissuto diversi anni in Valle d'Aosta, ucciso mentre rientrava con la fidanzata Cristina Elena nel suo chalet al riparo da occhi indiscreti nella località di Charcon, provincia di Aguilas.

Per detenzione illegale di armi, il pm spagnolo ha chiesto in dibattimento due anni di detenzione e ha proposto 200.000 euro a titolo di risarcimento in favore della madre di Nirta. Dal canto suo, la famiglia della vittima costituitasi parte civile chiede un risarcimento di 500.000 euro e la conferma della pena detentiva per Cristina ElenaToma (nella foto insieme alla vittima).

Per giungere al processo ci sono voluti quasi quattro anni di indagini della Guardia Civil di Aguilas, nella Murcia spagnola, seguite passo passo almeno sino al 2019 dai carabinieri di Aosta e dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino, perchè su quel deliitto è gravata a lungo l'ombra di una guerra di 'ndrangheta e perchè il nome di Giuseppe Nirta è legato a diverse inchieste sulla presenza delle cosche in Valle, l'ultima della quali, 'Geenna', prese le mosse proprio dal rilevamento della presenza di Giuseppe Nirta in Valle d'Aosta.

Ma gli investigatori spagnoli hanno ormai escluso "senza ombra di dubbio", ha asserito il pm durante il processo, che a uccidere il 'boss' della potente 'ndrina calabrese che porta il suo nome sia stato il commando di una cosca rivale o altri killer venuti da lontano. Indagini accurate, che avevano anche portato all'arresto di quattro spagnoli e un italiano, poi completamente scagionati. No, per la 'Fiscalia', la magistratura spagnola, quello di Nirta è un omicidio passionale, familiare. Con la 'ndrangheta non c'entra nulla.

Non sta in piedi la ricostruzione del delitto resa dall'imputata

All'inizio dell'indagine, la Guardia Civil aveva dato per scontata la versione di Cristina Elena, secondo cui lei e il suo compagno appena scesi dall'auto di fronte alla loro abitazione erano stati aggrediti da uno o più sconosciuti armati di pistola e coltello e lei era riuscita a salvarsi fuggendo nel buio. Tuttavia, i resti di polvere da sparo trovati nei vestiti che la donna indossava quella sera e la diversa posizione dei residui rimasti sulla sua maglietta e sui suoi pantaloni convinsero gli inquirenti che lei avrebbe potuto benissimo sparare, da due diverse posizioni, i sette colpi che hanno ucciso Nirta, 'finito' poi a colpi di coltello, gesto molto 'intimo' e che parrebbe motivato più da un forte rancore passionale piuttosto che modus operandi di un freddo e professionale sicario. Fu poi una minuziosa e sofisticata ricostruzione in 3D a svelare agli inquirenti le bugie della donna.

La polizia scientifica ha utilizzato strumenti informatici all'avanguardia per ricostruire l'omicidio con infografiche tridimensionali (3D) e spiegare così com'è avvenuto il crimine. "Sussistono incompatibilità tra il racconto dell'indagata - si legge nella relazione conclusiva del Dipartimento di Criminalistica, redatto il 7 agosto 2020 - con lo studio effettuato da questo Dipartimento e quello di Balistica e Tracce Strumentali, poiché tenuto conto sia della posizione delle capsule dei proiettili sulla scena sia della posizione della vittima, la posizione del presunto autore del crimine sarebbe diversa da quella dichiarata dall'indagata”.

La seconda incompatibilità, prosegue il documento della polizia, "è la posizione di Cristina Elena rispetto al tiratore, così che la nuvola di residui dei colpi di sparo alle mani e ai vestiti che indossava potesse colpirlo. La distanza tra la bocca del fuoco sarebbe maggiore della distanza che potrebbe percorrere la nuvola di residui di sparo, e bisogna tener conto anche dell'ostacolo costituito dal veicolo”.

Non sta in piedi nemmeno la ricostruzione della donna quando dice di essersi portata le mani alla testa sentendo le detonazioni ed essere riuscita a scivolare via, ma senza vedere in realtà il sicario che aveva sparato sette volte al suo uomo. La Guardia Civil ha rilevato che negli abiti che Cristina Elena indossava al momento dei fatti vi erano residui degli spari, ovvero piombo, antimonio e bario, in punti precisi dove non si sarebbero potuti depositare se quanto da lei raccontato fosse vero.  Infine, dopo il presunto agguato l'imputata aveva utilizzato il cellulare di Nirta per contattare un conoscente ma, ha detto in aula il pm, “non ha mai chiamato le Forze dell'ordine né il Soccorso sanitario". 

Quel 9 giugno 2017 Giuseppe Nirta lasciò la sua abitazione in auto e andò a prendere Cristina Elena al lavoro. Al ritorno, proprio mentre era appena uscito dalla vettura, gli spari e le coltellate mortali. Nelle foto scattate dalla Scientifica della Guardia Civil 'El Italiano', come in tanti lo chiamavano, Giuseppe Nirta giace a terra vicino alla sua auto con la portiera del conducente chiusa (Cristina Elena disse di essere riuscita a fuggire dalla portiera del passeggero); il corpo (vedi foto) è appoggiato sulla schiena, col viso e il petto rivolti verso l'alto. Una posizione poco compatibile con un uomo in fuga dai suoi assassini, piuttosto invece lo è con quella di chi è colto di sorpresa. Nessuno ha visto nulla, sulla scena del crimine c'era solo Cristina Elena Toma e dei presunti killer non è stata mai rinvenuta alcuna traccia materiale.

La filiera della cocaina che non c'entra con il delitto

Ciò che invece gli inquirenti spagnoli hanno accertato durante le indagini sono i rapporti di Nirta mantenuti nel tempo con alcuni trafficanti di cocaina. Non risulta una sua attività specifica in questo senso nei giorni precedenti la morte, ma è sicuro che l pregiudicato fosse in contatto piuttosto frequente con alcuni importanti personaggi albanesi, spagnoli e calabresi dell'ambiente del narcotraffico. I nomi di alcuni di questi soggetti sarebbero comparsi recentemente in fascicoli d'inchiesta delle procure italiane di Milano, Torino e Aosta. Ma non sono mai stati affiancati al delitto di Charcon, per il quale Cristina Elena Toma rischia una pesante condanna, che dovrebbe essere pronunciata entro il prossimo dicembre.

 

 

pa.ga.

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