ECONOMIA - 04 dicembre 2025, 21:19

Perché tornare a parlare di mance nei casinò: una proposta che viene da lontano

Il dibattito sul costo del lavoro nelle case da gioco riemerge oggi per ragioni storiche, fiscali e previdenziali che non si possono ignorare. L’evoluzione normativa sulle mance — dal 1973 ad oggi — spiega perché la discussione non è soltanto tecnica, ma riguarda equilibrio finanziario, autonomia gestionale e sostenibilità dei casinò pubblici

Perché tornare a parlare di mance nei casinò: una proposta che viene da lontano

Nelle ultime notizie relative alle case da gioco italiane, il costo del lavoro sembra preoccupare sempre di più le gestioni affidate in concessione a società a capitale pubblico, dove purtroppo la competenza lascia, a volte, il passo all’appartenenza. Questo, a tutto discapito della finalità per la quale le case da gioco sono state autorizzate, la prima nel 1927.

Il costo del lavoro ha registrato continui mutamenti legati, più che altro, alla continua e sacrosanta richiesta del personale di gioco che sosteneva — ecco il conforto dell’aggettivazione — l’armonizzazione dell’imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche con quello della contribuzione ai fini pensionistici.

Non è agevole sostenere che il disposto dell’art. 3, lett. i, del Decreto n. 314 del 1997 sia stato la causa dell’incremento di cui si è detto ma, allo stesso tempo, non pare possibile opporre una ragionata resistenza allo stato attuale della questione, intesa a parificare i due imponibili precedentemente indicati.

L’iter legislativo che precede l’attuale situazione inizia da lontano.

Il trattamento previdenziale delle mance discendeva dall’accordo tra le parti (datori di lavoro e dipendenti), secondo cui le mance erano tassate — in quanto comprese nella dichiarazione dei redditi personali in aggiunta alla retribuzione — nella misura in cui queste erano assoggettate a contribuzione pensionistica. Tale misura fu fatta propria dal Ministero del Lavoro nella determinazione del 14 aprile 1973, emessa ai sensi del 2° comma dell’art. 4 del DPR n. 1420 del 1973, emanato ai sensi della riforma pensionistica (legge 30 aprile 1969 n. 153, art. 35 lett. e).

Nel 1990, l’11 dicembre, fu emanata la legge n. 381 che, all’art. 1, modificando il DPR 22 dicembre 1986 n. 917, aggiunge all’art. 47 di detto decreto, alla lett. l), le mance ai croupier in relazione all’attività di lavoro subordinato. All’art. 3 della legge 381/90 si afferma che le mance costituiscono reddito nella misura del 75% del loro ammontare.

Con l’approvazione del decreto legislativo n. 314/97, in tema di armonizzazione ai fini Irpef e contributivi, le mance hanno registrato una ulteriore — e giusta, in considerazione del loro trattamento fiscale — sistemazione che rappresenta la normale evoluzione di un concetto sempre sostenuto dagli impiegati tecnici delle case da gioco.

Era, infatti, inconcepibile che una somma potesse essere riconosciuta come reddito solo ai fini fiscali e non anche ai fini previdenziali. Mi permetto di aggiungere che non appariva logico, nell’ambito di uno stesso ordinamento giuridico, che un’attribuzione patrimoniale fosse qualificata come “compenso” a un effetto (quello fiscale) e non a un altro (quello lavoristico-previdenziale), proprio in un combinato normativo in cui quella qualificazione presuppone necessariamente quest’altra. Se il Legislatore, nella sua autonomia e discrezionalità, aveva ritenuto di assoggettare a tassazione le mance, non poteva — a fronte di un identico presupposto impositivo — tenere un differente comportamento sul piano contributivo.

Appurato che la vincita al gioco nei casinò autorizzati è esente da Irpef in capo al giocatore vincente, si tratta di trovare il modo per garantire un’entrata tributaria all’ente pubblico titolare dell’autorizzazione alla casa da gioco, che tenga debito conto del fatto che lo stesso ente assolve all’imposta sugli intrattenimenti (art. 2, punto 2, Decreto Legislativo 26 febbraio 1999 n. 60): “Nel caso in cui l’esercizio di case da gioco è riservato per legge ad un ente pubblico, questi è soggetto d’imposta anche se delega ad altri la gestione”.

La gestione versa al concedente ente pubblico una percentuale sui proventi. L’eventuale utile di bilancio della gestione, in ultima analisi, rimane a disposizione del concedente in quanto azionista. Certamente l’utile sarà maggiore se il costo della produzione sarà inferiore. Ciò si potrebbe ottenere detassando — così come avviene per l’intero — la mancia, che ne è una parte (la più piccola).

Il dipendente provvederà quindi, nei modi che saranno stabiliti, a una pensione integrativa — relativamente alle mance — in aggiunta a quella sulla retribuzione ordinaria.

Mi scuso per la forma con la quale mi sono permesso di indicare una possibile soluzione a una problematica che viene da molto lontano, come ho cercato di esporre.

ma.na.

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