Quando la protesta diventa delirio collettivo e lo Stato resta a guardare
Quello che è successo davanti alla redazione de La Stampa a Torino non è semplice cronaca di un corteo sfuggito di mano. È molto di più: è il ritratto impietoso di una violenza che non conosce limiti, di un’aggressività cieca che si maschera da protesta. Manifestanti filopalestinesi, indignati per la detenzione di un imam con il rischio di espulsione, hanno scelto di sfogare la loro rabbia non nei tribunali o nelle piazze del dibattito civile, ma nelle strade e nei locali altrui. Vetrine spaccate, auto incendiate, aggressioni agli agenti di polizia, occupazioni di spazi privati: un crescendo di illegalità che mette in luce la totale mancanza di freni, ma anche la responsabilità di chi dovrebbe garantire l’ordine pubblico.
Il paradosso è evidente e doloroso. Chiedono giustizia per un uomo, ma calpestano quella altrui senza il minimo scrupolo. Invocano diritti e dignità, e nello stesso momento cancellano quelle degli altri: giornalisti che lavorano, cittadini che transitano, proprietà private che diventano bersagli. La protesta si trasforma in raid, il dissenso in delirio collettivo. Non è una questione di opinioni diverse: è un atto di violenza pura, condannabile in qualsiasi contesto e per qualsiasi causa.
E poi c’è il silenzio dello Stato. Non è un dettaglio. L’incapacità del governo, di fronte a simili derive antisociali, di esercitare un controllo efficace, di far rispettare la legge, è sconcertante. Non basta condannare a parole o annunciare indagini: servono azioni decise, misure preventive e responsabilità chiare. Ogni giorno in cui le autorità restano immobili, il messaggio è inequivocabile: la violenza paga, e chi la esercita può farlo impunemente.
Dietro i fumogeni e le urla ci sono le conseguenze reali: giornalisti feriti, vetrine distrutte, cittadini terrorizzati. Una città che dovrebbe essere luogo di confronto civile diventa teatro di aggressioni, e mentre il fumo sale e le sirene suonano, la rabbia sociale si nutre di una impunità che sembra senza limiti. Non è più solo una questione di ordine pubblico, è una questione morale: che società siamo disposti a tollerare se chi protesta può farlo a costo della vita e dei beni altrui?
Chi pensa che la violenza sia un linguaggio accettabile sbaglia, e sbaglia anche chi non interviene con fermezza. La difesa della legalità non è un optional: è il minimo che si possa chiedere a chi governa. È il rispetto dei diritti di tutti, e non solo di chi urla più forte o lancia il primo sasso. Vedere un corteo trasformarsi in raid contro una redazione è più di uno scandalo: è un campanello d’allarme, che ci ricorda quanto fragile sia la convivenza civile quando chi detiene il potere decisionale resta spettatore impotente.
Vandali e vigliacchi. Non ci sono altre parole per descrivere chi, sotto il pretesto della protesta, diventa carnefice dei diritti altrui. E per chi governa, l’avvertimento è chiaro: la società civile non può attendere, la legge deve tornare a essere rispettata, prima che la violenza diventi routine e il senso del bene comune un ricordo sbiadito.
Vandali e vigliacchi
Quand la « protestation » tourne au délire collectif et que l’État reste les bras croisés
Ce qui s’est passé devant la rédaction de La Stampa à Turin n’est pas une simple chronique d’un cortège qui a dérapé. Non. C’est bien pire : c’est le portrait cru d’une violence sans limites, d’une agressivité aveugle qui se drape dans le manteau de la « protestation ». Des manifestants pro-palestiniens, en colère contre la détention d’un imam menacé d’expulsion, ont choisi de déverser leur rage non pas devant un tribunal, ni dans des places publiques où le débat est possible, mais dans la rue et dans les locaux des autres. Vitrines fracassées, voitures incendiées, attaques contre les forces de l’ordre, occupations de propriétés privées : crescendo de l’illégalité qui montre non seulement l’absence totale de freins, mais aussi la responsabilité de ceux qui devraient garantir l’ordre public.
Le paradoxe est flagrant et douloureux. Ils réclament justice pour un homme, tout en piétinant celle des autres sans le moindre scrupule. Ils invoquent droits et dignité, et en même temps effacent ceux des journalistes qui travaillent, des citoyens qui passent, des biens privés devenus cibles. La « protestation » se transforme en raid, le désaccord en déchaînement collectif. Ce n’est pas une question d’opinion différente : c’est de la violence pure, condamnable partout, toujours et contre tous.
Et puis il y a le silence de l’État. Ce n’est pas un détail. L’incapacité du gouvernement face à cette dérive antisociale est sidérante. Condamner avec des mots, annoncer des enquêtes… ça ne suffit pas. Il faut agir, prendre des mesures claires, prévenir et punir. Chaque jour où les autorités restent immobiles, le message est clair : la violence rapporte, et ceux qui l’exercent peuvent le faire impunément.
Derrière les fumigènes et les cris, il y a les conséquences concrètes : journalistes blessés, vitrines détruites, citoyens terrorisés. Une ville qui devrait être un lieu de débat civil devient un théâtre d’agressions, et pendant que la fumée monte et que les sirènes hurlent, la colère sociale se nourrit d’une impunité qui semble infinie. Ce n’est plus seulement une question d’ordre public, c’est une question morale : quelle société sommes-nous prêts à tolérer si ceux qui protestent peuvent le faire au détriment de la vie et des biens d’autrui ?
Vandales et lâches. Il n’y a pas d’autre mot pour ceux qui, sous prétexte de protester, deviennent les bourreaux des droits d’autrui. Et pour ceux qui gouvernent, le signal est clair : la société civile ne peut pas attendre, la loi doit redevenir respectée, avant que la violence ne devienne routine et que le sens du bien commun ne soit plus qu’un vague souvenir.





