Una domanda che, almeno inizialmente, mi ha causato un certo disagio, perché la risposta non poteva certo trovarsi su due piedi.
Mi è stato chiesto: se la Casa da Gioco dovesse subire un rallentamento negli introiti, esisterebbe una possibile soluzione per non penalizzare le entrate regionali derivanti dalla gestione pubblica?
Sono stato costretto a prendermi un intervallo per riflettere su una questione che — non lo si può nascondere — non è affatto di poco momento né di semplice soluzione.
La prima ricerca sui costi, senza considerare preliminarmente la riduzione del personale (che non mi pareva opportuno inglobare nel ragionamento, essendo l’interesse pubblico legato anche al fattore occupazionale), mi ha impegnato non poco.
Al termine di un esame piuttosto ampio, mi sono ritrovato a ripensare alla cosiddetta “questione fiscale dei croupier” delle case da gioco italiane, risolta nel 1997 con l’emanazione del D.M. n. 314 del 30 settembre 1997.
Con quel decreto veniva stabilita la tassazione, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, del 75% del percepito nel periodo d’imposta e, contemporaneamente, il versamento dei contributi pensionistici — sul medesimo importo — a carico del datore di lavoro.
Ricordando la data di quel decreto, ho collegato la situazione alla Legge europea 2015, recepita dall’ordinamento italiano, e alla definizione delle mance contenuta nella sentenza della Corte Costituzionale, sezione Lavoro, n. 1775 del 1976.
In quella pronuncia si stabiliva che la mancia è una parte della vincita.
La sentenza del 18 maggio 1976 della Suprema Corte di Cassazione, sezione Lavoro, recita:
“Il sistema mancia è retto da un uso normativo — si ricava dall’indirizzo consolidato della giurisprudenza sin dal 1954 — tanto consolidato quanto idoneo ad assumere un ruolo di fonte secondaria del regime giuridico proprio del particolare rapporto che obbliga il giocatore vincente ad elargire una parte della vincita al croupier, e questi a ripartirla con gli altri addetti e con il gestore.”
La Legge europea 2015, all’articolo 7 (“Disposizioni in materia di tassazione delle vincite nelle case da gioco. Esecuzione della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 22 ottobre 2014”), stabilisce che le vincite al gioco, corrisposte da case da gioco autorizzate in Italia o in altri Stati membri dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo, non concorrono a formare reddito per l’intero ammontare percepito nel periodo d’imposta.
La precedente normativa italiana — articolo 69 del T.U.I.R. (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917) — considerava invece tali vincite come redditi diversi (art. 67, comma 1, lettera d).
Non credo di dire uno sproposito se osservo che oggi la vincita è esente, mentre la mancia, che è solo una parte di quella vincita, viene tassata.
In un primo momento si era anche ipotizzato di tassare le vincite all’origine, ma la proposta fu abbandonata per i danni che avrebbe causato: un brusco calo delle entrate nelle case da gioco e, di conseguenza, ripercussioni sull’occupazione e sul turismo, con vantaggi per la concorrenza d’oltreconfine.
Se la mancia fosse esente, o tassata come nel settore della ristorazione e degli alberghi (al 5%), e se il lavoratore provvedesse personalmente alla pensione in forma integrativa, si otterrebbe una riduzione sensibile dei costi di gestione.
Posso comprendere il presupposto impositivo — “il datore di lavoro mette a disposizione il modo di incassare le mance” —, ma tra il comparto alberghiero e quello delle case da gioco il movente è diverso.
Nel primo caso la mancia è legata al servizio; nel secondo, alla vincita, e se ci fosse un servizio inteso come sollecitazione o suggerimento del gioco, esso sarebbe perseguibile penalmente.
Tali entrate hanno natura tributaria ai sensi dell’articolo 19 del D.L. 1 luglio 1986, n. 318, convertito con la legge 9 agosto 1986, n. 488.
Spesso mi ritrovo a scrivere sulla natura giuridica del “quantum” che il concedente riceve dal concessionario che gestisce la casa da gioco, sia esso pubblico o privato.
L’articolo 19 del D.L. n. 318 del 1 luglio 1986, convertito in legge n. 488/86 e intitolato “Entrate speciali a favore dei comuni di Sanremo e Venezia”, recita al comma 1:
“Le entrate derivanti ai Comuni di Sanremo e Venezia dalle gestioni di cui al R.D.L. 22 dicembre 1927, n. 2448, convertito dalla L. 27 dicembre 1928 n. 3125, nonché al R.D.L. 16 luglio 1936, n. 1404, convertito dalla L. 14 gennaio 1937 n. 62, sono considerate, fin dalla loro istituzione, entrate di natura pubblicistica, da classificarsi nel bilancio al titolo I — entrate tributarie. Non si dà luogo al rimborso delle imposte dirette già pagate.”





