Secondo lo studio, si tratta di 60,7 miliardi di ore annue, per un valore stimato di 473,5 miliardi di euro, pari al 26% del PIL nazionale. Eppure, questo contributo resta invisibile nei conti economici e scarsamente considerato nella società: solo un terzo di chi si dedica alla cura percepisce che il proprio lavoro sia valorizzato dagli altri.
Il carico di cura ha conseguenze dirette sull’occupazione femminile. Nonostante un livello di istruzione medio-alto, l’82,6% delle donne inattive dichiara di non cercare un impiego retribuito a causa di responsabilità familiari.
Quasi una madre su due lascia il lavoro dopo il primo figlio, spesso per mancanza di servizi e rigidità organizzative. Con un tasso di occupazione femminile tra i più bassi d’Europa (57,7% nel 2024), il Paese paga anche in termini demografici ed economici: si stima una riduzione del PIL del 9% entro il 2050 se la tendenza non verrà invertita.
Molti caregiver iniziano la loro attività pensando che si tratti di una fase temporanea. In realtà, la permanenza media nel lavoro di cura non retribuito è di oltre 13 anni per le donne e quasi 10 per gli uomini.
Così, quella che appare come una scelta momentanea si trasforma in un vincolo a lungo termine, che spesso accompagna l’intero ciclo di vita: dall’accudimento dei figli alla cura degli anziani.
Il 53% delle persone intervistate dedica più di 40 ore settimanali al lavoro domestico e di cura — un impegno superiore a un tempo pieno contrattualizzato. Le donne tra i 40 e i 60 anni vivono con maggiore intensità il cosiddetto “effetto sandwich”, strette tra l’assistenza ai figli e quella ai genitori non autosufficienti.
L’assistenza ad adulti e anziani non autosufficienti grava per oltre il 90% sulle donne, due terzi delle quali hanno più di 60 anni. Molte dichiarano carichi orari oltre le 55 ore settimanali, in alcuni casi superiori alle 80.
Non sorprende che si parli di rischio burn-out, isolamento, ansia e depressione: in Italia i caregiver potenzialmente esposti a queste condizioni sono stimati tra 750 mila e 1,2 milioni.
Solo l’11% dei caregiver versa contributi previdenziali, aumentando il rischio di povertà in età avanzata. Al problema economico si aggiunge quello della sicurezza: il 60% delle donne che svolgono lavoro di cura ha subito un infortunio domestico nell’anno precedente l’indagine, un tasso triplo rispetto a quello registrato sul lavoro retribuito.
Soltanto il 18% delle persone intervistate riceve un aiuto significativo dal partner, e comunque per poche ore a settimana. L’accesso ai servizi pubblici gratuiti è insufficiente: i nidi coprono appena un terzo dei bambini sotto i 3 anni, mentre l’assistenza agli anziani non autosufficienti resta in gran parte a carico delle famiglie.
Da qui la richiesta pressante di più servizi di assistenza e maggiore flessibilità lavorativa.
L’OIL e Federcasalinghe propongono una strategia nazionale in linea con le direttive internazionali e dell’Unione Europea: riconoscere, ridurre, redistribuire e ricompensare il lavoro di cura, garantendo rappresentanza e tutele a chi lo svolge.
Informazione e sensibilizzazione restano strumenti chiave per abbattere stereotipi e dare finalmente dignità a milioni di lavoratrici e lavoratori invisibili.





