È passato più di mezzo secolo, eppure quell’aggettivo — giallo — sembra ancora capace di gelare il sangue. Era il 1980 (circa quarant’anni fa) quando, sulla strada che conduce a Champlong, nei pressi di Châtillon, venne scoperto il corpo di un uomo biondo, nudo, avvolto in un telo e legato con nastri. Le impronte digitali erano state bruciate, rendendo impossibile ogni tentativo di identificazione. La testa presentava due fori, probabilmente causati da arma da fuoco, e c’era una cicatrice prominente sul mento, un segno evidente di un intervento chirurgico. Anche un braccio mostrava tracce di operazione. Nessuno seppe dire chi fosse quell’uomo. Nonostante un identikit venne diffuso e furono scansionati gli ospedali in cerca di corrispondenze, il nome rimase impigliato nel silenzio dell’oblio.
Nei decenni successivi, quel corpo divenne leggenda. Si parlava della scena guardata attraverso le finestre dell’obitorio, di quel telo stretto attorno a un corpo senza più identità. Ma nessuno parlava davvero, e le indagini — civili e giornalistiche — si scontrarono con l’inconsistenza dei fatti. Il vero volto di quell’uomo rimase nell’ombra.
Il giallo dell’uomo nudo ha finito con l’entrare nella memoria collettiva valdostana. Una presenza spettrale, evocata nei mesi piovosi, nei sentieri nebbiosi della valle. Molti ci credono ancora. Qualcuno ha provato a collegarlo con altre storie di corpi senza nome: il “Barba” (Ambrogio Mella), il tragico ritrovamento a Fénis, lo sciatore scomparso nel Cervino nel 1954 — tutti gialli di pietra e ghiaccio, di voci spezzate e identità perdute.
A distanza di decenni, quel mistero rimane senza risposta. Ma non è un’assenza sterile: è un vuoto che interroga. Ci ricorda che la montagna, con il suo silenzio, può nascondere storie che gridano vendetta. E che ciò che non si parla, non muore: resta, come un eco sordo, nella memoria della valle.
« Ce mystère ne doit pas être enterré avec l’oubli. Car même dans les montagnes les plus secrètes, la vérité a le droit de trouver sa voix. »





