C’è una soglia che non si dovrebbe mai oltrepassare, neppure nel momento più acceso di uno scontro politico. È quella della violenza, verbale o fisica, quella che toglie l’ossigeno al vivere civile e che trasforma il confronto in minaccia, la parola in arma, la democrazia in rissa.
Quella soglia, ieri, è stata abbattuta nel cuore della città di Aosta. In un bar, davanti a diverse persone, un uomo si è avvicinato a Giovanni Girardini, candidato sindaco per il centrodestra, e gli ha augurato «di morire entro la fine dell’anno». Non si è fermato lì: ha dichiarato, con glaciale determinazione, che «farà di tutto perché questo avvenga». Uno scatto d’odio puro. Una sentenza pronunciata non da un giudice, ma da un cittadino qualsiasi, un uomo adulto che ha preferito la minaccia all’argomentazione, l’odio al confronto.
Non è più nemmeno una questione politica. È un’emergenza culturale. Un’allerta democratica. Perché se in una piccola città di montagna, dove ci si conosce per nome e per volto, un cittadino può sentirsi in diritto di augurare la morte a un altro solo perché candidato sindaco, allora qualcosa si è irrimediabilmente rotto.
Girardini ha scelto di raccontare l’episodio sui social con lucidità e con una disarmante serenità. «Non so il perché di tanto odio», scrive, «ed essendo certo di non avergli in alcun modo recato danno nella mia vita, sinceramente poco mi importa». Ha deciso di rispondere con il silenzio, o meglio con la preghiera: «Ho deciso di pregare per lui e per la sua amica del cuore che la pensa allo stesso modo. Magari un giorno diventeranno persone migliori».
Una reazione nobile, certo. Ma che non assolve la collettività dal dovere di reagire. Perché quando l’odio si fa pubblico, la risposta deve esserlo altrettanto.
Essere un personaggio pubblico, essere un candidato, significa esporsi: alle critiche, ai giudizi, perfino alle satire. Ma non all’odio. Non alla minaccia fisica. Non al terrore. Perché questo è il nome da dare alle parole di ieri: terrorismo verbale.
E se qualcuno ride, minimizza o resta in silenzio, sbaglia due volte: una come cittadino, l’altra come essere umano.
Girardini ha scritto anche parole che lasciano senza fiato per la loro umanità: «Continuo a pensarci, non perché ho paura che riesca nel suo misero intento — non ho mai avuto paura di morire — ma perché se così fosse incontrerei di nuovo mia madre, e sarebbe meraviglioso».
È un passaggio che fa riflettere: dietro ogni volto candidato c’è una persona, con la propria storia, con le proprie ferite, con i propri amori.
Ma il punto non è lui. Il punto siamo noi. Che società siamo diventati, se non sappiamo più distinguere tra passione e odio, tra conflitto e crudeltà?
E soprattutto: quanti altri episodi simili devono accadere, prima che qualcuno alzi la voce — non per dire chi ha ragione o torto — ma per dire che così no?
Chi si candida lo fa per scelta, per ambizione, per spirito civico. Ma nessuno dovrebbe farlo rischiando l’incolumità, fisica o morale. Perché in una democrazia, chiunque — da sinistra a destra — deve poter dire la sua senza temere per la propria vita.
Chi semina odio in pubblico, raccoglie complicità nel silenzio.
E allora, oggi, rompere quel silenzio non è solo un dovere: è un atto di resistenza civile.





