Nel pomeriggio del 24 luglio, l’aula del Consiglio Valle ha voltato le spalle a una proposta di legge che avrebbe regolato, a livello regionale, le procedure per il suicidio medicalmente assistito, in attuazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019, la cosiddetta “Cappato/Dj Fabo”. Il testo, presentato nel febbraio 2024 dal gruppo Progetto Civico Progressista, si è fermato contro un muro fatto di astensioni, dubbi e preoccupazioni. Ventisette astenuti – tra cui Union Valdôtaine, Stella Alpina, Lega, Rassemblement, Forza Italia – contro sette voti favorevoli e l’assenza al voto del Consigliere Lucianaz. È la fotografia plastica di un’Aula che non ha trovato il coraggio – o la convinzione – per affrontare una questione di vita e di morte.
Al di là dei tecnicismi, la legge proponeva che fosse l’Azienda sanitaria locale a farsi carico dell’intero percorso: dalla verifica dei requisiti all’esecuzione del suicidio assistito, garantendo una morte “rapida, indolore e dignitosa”. Una cornice operativa, quindi, che traducesse in procedure concrete il diritto all’autodeterminazione nei casi di malattie irreversibili e sofferenze intollerabili, secondo quanto stabilito dalla Consulta.
Ma è proprio qui che si è aperto il baratro. Il confine tra diritto e abuso, tra compassione e deresponsabilizzazione, tra accompagnamento e abbandono, ha sollevato interrogativi profondi. Per alcuni, la proposta suonava come un segnale di civiltà verso chi chiede di non essere condannato a soffrire contro la propria volontà. Per altri, come il Consigliere Distort, era l’inizio di una deriva pericolosa: “Oggi rischiamo di mettere una pistola sul letto del malato”, ha detto. La sua non è stata solo una metafora, ma un grido di allarme. Perché, al di là del tecnicismo giuridico, il nodo è culturale, etico, esistenziale.
Che ne è della medicina, della deontologia, se il medico diventa esecutore materiale di una morte programmata? E chi stabilisce, davvero, quando la sofferenza è intollerabile? L’individualismo contemporaneo – segnato dall’idea che la libertà coincida con il potere di disporre della propria esistenza – rischia di sovvertire il principio fondativo della comunità: la solidarietà verso chi soffre, non la facilitazione della sua uscita di scena.
La proposta, poi, non è caduta nel vuoto. Contestualmente, è stato approvato un ordine del giorno che impegna il Consiglio a sollecitare una legge nazionale sul fine vita. Il senso è chiaro: materia troppo delicata, troppo profonda, per essere trattata in ordine sparso dalle Regioni, generando una “geografia dei diritti” a seconda della latitudine. È il Parlamento, e non un consiglio regionale, a dover regolare un tema che tocca l’essenza della dignità umana.
Non è un caso che gran parte delle astensioni siano arrivate da forze che, pur non ostili al principio dell’autodeterminazione, hanno espresso riserve sulla legittimità costituzionale e sull’adeguatezza della proposta. Lo ha ribadito Corrado Jordan, richiamando al rispetto dei limiti di competenza e alla necessità di un approccio giuridicamente solido. Altri consiglieri, come Aggravi o Malacrinò, hanno mostrato un travaglio personale autentico, divisi tra compassione e cautela, tra il desiderio di risposte e il timore di una scorciatoia normativa.
Certo è che non si può nascondere il disagio profondo di fronte a una legge che, per quanto animata da buone intenzioni, finisce per aprire una porta che rischia di diventare un portone. La sofferenza, per quanto estrema, non può essere la misura della dignità. La risposta di una società civile e matura non può essere quella di “accompagnare alla morte”, ma di prendersi cura, fino alla fine. È la cura – non il farmaco letale – che testimonia la vera compassione.
Il dolore, anche quando insopportabile, non è mai solo fisico: è esistenziale, spirituale, relazionale. La medicina palliativa, la vicinanza umana, la presenza accanto al malato sono ciò che restituisce senso anche all’ultimo tratto della vita. Pensare di ridurre la risposta al dolore a una procedura amministrativa – pur inquadrata da pareri e comitati – è una sconfitta collettiva. Non siamo nati per morire da soli, con un ago nel braccio e un modulo compilato.
Ciò che oggi il Consiglio ha fatto, rifiutando di legiferare in modo affrettato, è un atto di prudenza e anche di coscienza. La legge non è mai neutra. Educare alla vita significa anche educare al limite, al sostegno, all’accompagnamento. Nessuna legge potrà mai sostituire il bisogno umano, profondamente umano, di essere amati e non lasciati soli. Anche quando si ha voglia di morire. Anche quando non si ha più la forza di chiedere aiuto. Anche quando si è convinti che sia finita.
Per questo, io penso che quella proposta fosse sbagliata. Non perché mancasse di compassione, ma perché ne aveva troppa, al punto da trasformarla in una scorciatoia letale. E in politica – come nella vita – le scorciatoie non sono quasi mai una buona strada.
Et pendant ce temps-là, la Curie d’Aoste est restée silencieuse. Ni prise de position avant le débat, ni mot après le rejet de la proposition. Un mutisme qui étonne, à la veille d’une réforme importante, venant d’une institution qui, ailleurs en Italie, ne manque pas d’exprimer sa voix sur les grandes questions sociales. Silence stratégique, indifférence ou embarras ? Les fidèles, eux, auraient mérité au moins un mot.





