Che un deputato trentino del gruppo parlamentare di Fratelli d’Italia, approdato a Roma passando per Verona, senta il bisogno di spiegare alla Valle d’Aosta come tutelare la propria autonomia è già di per sé un segnale preoccupante. Che lo faccia accusando il presidente della Regione, Renzo Testolin, di «scontro continuo» con il governo Meloni, è un passo oltre l’arroganza: è l’ennesima manifestazione di quella sindrome da centralismo romano che la nostra specialità, conquistata e difesa in decenni di storia repubblicana, dovrebbe tenere lontana come il fumo negli occhi.
L’onorevole Alessandro Urzì, capogruppo FdI in Commissione Affari Costituzionali, in una lunga dichiarazione ha accusato Testolin di fare il male dell’autonomia per via di uno “spirito di sfida” verso le forze di governo nazionale. Ma Urzì sa davvero cosa significa autonomia? Sa che la Valle d’Aosta non è una succursale del Viminale né un campo di addestramento per ambizioni romane? Sa, per dirne una, che il presidente della Regione non è eletto direttamente dai cittadini ma dal Consiglio regionale, espressione del nostro ordinamento speciale?
Dipingere come «ostile» ogni tentativo di difendere le prerogative statutarie è un trucco retorico vecchio quanto la politica centralista. Eppure la nostra autonomia nasce proprio da una dialettica istituzionale accesa, quando serve, e fondata sulla necessità di evitare l’uniformazione cieca alle regole statali. Chi vuole ridurre tutto a un presunto “scontro” o fa finta di non capire o spera che i valdostani abbassino la testa. Ma noi, Piero, la testa non l’abbiamo mai abbassata, e Testolin – con tutti i suoi limiti politici – ha fatto bene a dire chiaro e tondo che non accetteremo imposizioni calate dall’alto, soprattutto quando mettono in discussione il nostro ordinamento.
Sulla questione dei mandati nei piccoli comuni, Urzì e i suoi sodali locali – alcuni dei quali noti per i loro numerosi cambi di casacca – tentano di rigirare la frittata. Dimenticano che la legge regionale impugnata (cosa non rara per le regioni speciali, lo sanno bene anche Sicilia e Sardegna) nasceva da una volontà precisa del Consiglio Valle di regolamentare un tema che riguarda il tessuto democratico delle nostre comunità.
Accusare la Regione di incostituzionalità per una norma votata in aula, frutto di un dibattito politico legittimo, è un’operazione strumentale. L’articolo 51 della Costituzione – sbandierato da Urzì e Sammaritani – garantisce il diritto di elettorato passivo, sì, ma non vieta affatto che le Regioni stabiliscano limiti ai mandati per motivi di trasparenza e rinnovamento. È un falso problema, montato ad arte per screditare l’azione legislativa valdostana.
Urzì vorrebbe farci credere che il centrodestra nazionale parli una sola lingua in nome della “certezza del diritto”. Ma ciò che si intravede, in realtà, è la solita volontà di uniformare tutto e tutti, col metro romano, anche a costo di calpestare la specificità. Se c’è qualcosa che i valdostani dovrebbero temere, non è la difesa ferma di Testolin, bensì la voglia di alcuni di fare della nostra Regione una dependance della Meloni. Questo sì che non fa l’interesse del territorio.
È curioso che Urzì accusi l’Union Valdôtaine di visione «paternalistica», quando a trattare la Valle come un’entità incapace di autodeterminarsi sono proprio i suoi alleati, quelli che oggi si mettono la coccarda dell’autonomia e domani votano per il presidenzialismo centralista, lo svuotamento delle Regioni e la riforma dell’Autonomia differenziata disegnata a misura delle grandi regioni del Nord.
L’autonomia non è una concessione del governo, è una conquista dei valdostani. E se serve alzare la voce, come ha fatto Testolin, per ricordarlo a chi da Roma pensa di dettare legge anche su come eleggere i nostri sindaci, ben venga lo “scontro” istituzionale. Perché, caro Urzì, difendere l’autonomia non è un capriccio: è un dovere. E a giudicare dai toni del suo intervento, c’è ancora molto da spiegare – e molto da difendere.