L’Europa non è un supermercato dove si entra con la carta di credito. È una comunità politica che – almeno nelle intenzioni – si regge su valori comuni. Lo ha ribadito il Parlamento europeo il 7 maggio, sospendendo ufficialmente il processo di adesione della Türkiye, il nuovo nome scelto da Erdoğan per la sua Turchia. Dietro questa decisione non c’è solo il deterioramento democratico di un paese che da anni scivola verso l’autoritarismo. C’è un messaggio che attraversa tutto il continente, fino ad arrivare anche da noi, in Valle d’Aosta.
Perché, diciamocelo, anche qui nel nostro piccolo ci interroghiamo ogni giorno su cosa significhi davvero appartenere a questa Unione europea: tra vincoli di bilancio, direttive che toccano la nostra autonomia, e promesse (spesso) disattese. Ma oggi, davanti alla deriva turca, l’Europa ha mostrato un guizzo d’orgoglio. Ha detto no a chi vorrebbe entrare solo per convenienza, senza rispettare le regole del gioco.
Il Parlamento ha votato con una larga maggioranza per sospendere il processo di adesione, già di fatto in stato comatoso. Le ragioni? Repressione violenta delle proteste pacifiche, arresti arbitrari (come quello del sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, possibile rivale di Erdoğan), attacchi sistematici alla libertà di stampa e alle opposizioni. E, come se non bastasse, la visita illegale del presidente turco a Cipro Nord, gesto che ha riaperto vecchie ferite mai rimarginate.
Ma il punto non è solo politico. È culturale. L’Europa – quella vera – non può accogliere al proprio interno un regime che calpesta lo Stato di diritto e considera i diritti umani un lusso da bilanciare con gli interessi strategici. Perché altrimenti, domani, chi sarà il prossimo? E che cosa resterà dell’identità europea, se tutto si può negoziare?
Qui in Valle d’Aosta, dove il principio di autonomia è scritto nella nostra carne istituzionale, sappiamo bene che l’adesione a un sistema più ampio – sia esso lo Stato o l’Europa – comporta anche responsabilità. E che le tutele di cui godiamo hanno senso solo se dentro un quadro democratico condiviso. Proprio per questo, la decisione di Strasburgo ci tocca da vicino: perché ci ricorda che non basta sventolare il vessillo dell’unità se non si rispettano i fondamenti su cui si regge quella stessa unità.
Attenzione però: il Parlamento non chiude tutti i ponti. Anzi, riconosce alla Türkiye un ruolo strategico fondamentale: partner nella sicurezza, nella gestione migratoria, nel commercio. L’idea è quella di un dialogo pragmatico, ma senza svendite. In altre parole: collaborare dove serve, ma senza rinunciare ai propri principi.
È un equilibrio difficile, lo sappiamo bene anche qui quando discutiamo di autonomia e Stato centrale. Ma la differenza sta proprio lì: nel non abdicare mai ai valori fondanti.
Dall’Alta Valle a Strasburgo, c’è un filo che unisce le scelte politiche: la coerenza. Quella che spesso manca nel dibattito pubblico nostrano, dove si passa con disinvoltura dalla retorica dei diritti alla realpolitik dei favori.
Ecco perché, oggi, possiamo dire che l’Europa ha fatto la cosa giusta. Ha ricordato a tutti – anche a noi – che l’appartenenza non si compra. Si costruisce, giorno dopo giorno, col rispetto delle regole, dei diritti, della dignità.
Perché l’Unione europea, quando è fedele a se stessa, non è solo un progetto politico: è una promessa morale. E questa, almeno per ora, la Türkiye non può mantenerla.