Ogni giorno, la parola inclusione viene invocata dai politici, dai dirigenti scolastici, dagli amministratori locali, ma nella pratica quotidiana è svuotata di ogni significato. È diventata uno slogan vuoto, un concetto teorico che non riesce mai a trasformarsi in azioni concrete. Questo è il Paese che vogliamo? Un Paese che brandisce l’inclusione come bandiera ma poi lascia cadere nel vuoto le richieste di famiglie, bambini e persone che hanno veramente bisogno di un cambiamento nella mentalità collettiva? La risposta è sempre la stessa: quando si tratta di fare davvero qualcosa, nessuno vuole rischiare.
Ecco il caso che più di ogni altro svela l'ipocrisia che si nasconde dietro parole altisonanti e buone intenzioni. La lettera aperta di due genitori di Aosta, che ci raccontano la loro lotta quotidiana per offrire al loro bambino con epilessia un’estate come tutte le altre famiglie. Un bimbo che ha superato la malattia grazie a una terapia quotidiana, che non ha mai avuto crisi grazie ai controlli costanti e al supporto dei genitori. Eppure, nonostante questo, non riescono a iscrivere il loro bambino a un semplice centro estivo, un diritto che dovrebbero poter esercitare come ogni altra famiglia.
Perché? Perché nessuno è disposto a prendersi una minima responsabilità. Perché, in nome della paura di un possibile rischio, si preferisce chiudere la porta in faccia a chi chiede un’opportunità per il proprio figlio. Incredibile. La famiglia ha offerto di firmare una liberatoria, di permettere la formazione gratuita del personale da parte dell’Associazione Italiana contro l’Epilessia, che ha messo a disposizione una formazione strutturata per insegnare, in meno di un'ora, come somministrare un farmaco salvavita. Ma questo non basta. La risposta è sempre la stessa: "Non vogliamo rischiare", come se ogni atto di inclusione fosse un potenziale rischio.
E questo ci porta a chiederci: quale inclusione? Quella che si pratica solo nei giorni di scuola, quando sono previsti i sostegni, ma poi si fa finta che fuori da quell’ambito la disabilità non esista? Quella che si ferma quando si parla di attività extrascolastiche? Perché a scuola c’è l’insegnante di sostegno, ma nei centri estivi non c’è spazio per chi non è "standard"?
In Italia, chi ha i mezzi economici trova sempre una soluzione. Se hai i soldi, puoi pagare una tata, puoi pagare assistenza. Se non li hai, sei solo un numero. La povertà di risorse è una realtà per molte famiglie, ma ancora più grave è la povertà di volontà e di consapevolezza da parte delle istituzioni. La discriminazione, in Italia, non è solo quella che si vede. Non sono solo le barriere architettoniche o le discriminazioni palesi. La vera discriminazione è quella invisibile, che si nasconde dietro la paura e l’indifferenza, quella che porta a dire “Non è il nostro problema” piuttosto che “Come possiamo aiutare?”.
La mancanza di servizi inclusivi è una piaga che colpisce le famiglie più fragili, quelle che davvero hanno bisogno di un sistema che supporti la loro quotidianità. E non si tratta solo di un problema individuale. È un fallimento del sistema. Una società che non è in grado di accogliere e integrare i suoi membri più vulnerabili non è una società giusta, non è una società che può definirsi moderna.
Questa lettera, che racconta la battaglia di genitori coraggiosi contro un muro di indifferenza, è un grido di allarme. E la domanda è: cosa stiamo facendo come comunità? Come mai una società che si dichiara "avanzata" non riesce nemmeno a garantire i diritti più basilari a un bambino che ha bisogno di accedere a un centro estivo? Un diritto che dovrebbe essere naturale come andare a scuola, giocare con gli altri bambini, vivere un’estate normale.
E qui non parliamo di un caso raro o isolato. Parliamo di un sistema che si fonda sul principio che chi ha i soldi si arrangia, chi non li ha si accontenti di quello che riesce a strappare. Parliamo di una gestione dell’inclusione che si basa sul "chi può permetterselo" e non sul "chi ha diritto a". Questa è la realtà di chi non ha voce, di chi lotta per un diritto che dovrebbe essere garantito a tutti.
A questo punto, cosa resta? Un sistema educativo che si ferma alle mura della scuola e dimentica la vita di tutti i giorni. Un sistema sociale che lascia indietro chi ha più bisogno, ma fa finta di progredire con parole vuote. Che tipo di inclusione possiamo davvero avere se non riusciamo nemmeno a permettere a un bambino con epilessia controllata di vivere una normale estate? È questo il modello di società che vogliamo costruire? O è solo un altro modo per far finta di fare qualcosa, quando in realtà stiamo facendo ben poco?
La risposta deve venire da ognuno di noi. La vera inclusione si costruisce non solo con la legge, ma con il cuore, con la sensibilità e, soprattutto, con la capacità di dire sì, di prendere un rischio, di imparare, di non chiudere gli occhi di fronte alle necessità degli altri. La vera inclusione è quella che non lascia nessuno fuori, che non guarda la condizione economica, che non ha paura di allungare una mano quando c’è bisogno. Perché questo è un paese che si dice civile, ma che spesso dimentica di esserlo davvero.
Quale inclusione?
Chaque jour, le mot inclusion est invoqué par les politiciens, les chefs d’établissement, les administrateurs locaux, mais dans la pratique quotidienne, il est vidé de tout sens. Il est devenu un slogan creux, un concept théorique qui ne se traduit jamais en actions concrètes. Est-ce le pays que nous voulons ? Un pays qui brandit l’inclusion comme un étendard mais qui laisse ensuite sans réponse les demandes des familles, des enfants et des personnes qui ont réellement besoin d’un changement dans la mentalité collective ? La réponse est toujours la même : lorsqu’il s’agit de vraiment faire quelque chose, personne ne veut prendre de risques.
Voici le cas qui, plus que tout autre, révèle l’hypocrisie qui se cache derrière les mots grandiloquents et les bonnes intentions. La lettre ouverte de deux parents d’Aoste, qui nous racontent leur lutte quotidienne pour offrir à leur enfant épileptique un été comme celui de toutes les autres familles. Un enfant qui a surmonté la maladie grâce à une thérapie quotidienne, qui n’a jamais eu de crise grâce aux contrôles constants et au soutien de ses parents. Et pourtant, malgré cela, ils n’arrivent pas à inscrire leur enfant à un simple centre de loisirs, un droit qu’ils devraient pouvoir exercer comme n’importe quelle autre famille.
Pourquoi ? Parce que personne ne veut assumer la moindre responsabilité. Parce qu’au nom de la peur d’un risque éventuel, on préfère claquer la porte au nez de ceux qui demandent une opportunité pour leur enfant. Incroyable. La famille a proposé de signer une décharge, d’autoriser une formation gratuite du personnel par l’Association Italienne contre l’Épilepsie, qui a mis à disposition un module structuré pour apprendre, en moins d’une heure, comment administrer un médicament vital. Mais cela ne suffit pas. La réponse est toujours la même : « Nous ne voulons pas prendre de risque », comme si chaque acte d’inclusion représentait un danger potentiel.
Et cela nous pousse à nous interroger : quelle inclusion ? Celle qui ne s’applique que pendant les heures de classe, lorsque les aides sont prévues, mais qui fait semblant d’oublier le handicap en dehors de ce cadre ? Celle qui s’arrête dès qu’on parle d’activités extrascolaires ? Parce qu’à l’école il y a l’enseignant de soutien, mais dans les centres de loisirs il n’y a pas de place pour ceux qui ne sont pas « standards » ?
En Italie, ceux qui ont les moyens trouvent toujours une solution. Si tu as de l’argent, tu peux payer une nounou, tu peux payer une assistance. Si tu n’en as pas, tu n’es qu’un numéro. La pauvreté en ressources est une réalité pour de nombreuses familles, mais encore plus grave est la pauvreté de volonté et de conscience de la part des institutions. La discrimination, en Italie, ne se limite pas à ce que l’on voit. Ce ne sont pas seulement les barrières architecturales ou les discriminations évidentes. La véritable discrimination est celle qui est invisible, qui se cache derrière la peur et l’indifférence, celle qui pousse à dire « Ce n’est pas notre problème » au lieu de « Comment pouvons-nous aider ? ».
Le manque de services inclusifs est un fléau qui frappe les familles les plus fragiles, celles qui ont vraiment besoin d’un système qui soutienne leur quotidien. Et ce n’est pas seulement un problème individuel. C’est un échec du système. Une société qui n’est pas capable d’accueillir et d’intégrer ses membres les plus vulnérables n’est pas une société juste, ni une société qui peut se dire moderne.
Cette lettre, qui raconte le combat de parents courageux contre un mur d’indifférence, est un cri d’alarme. Et la question est : que faisons-nous, en tant que communauté ? Comment une société qui se dit « avancée » ne parvient-elle même pas à garantir les droits les plus fondamentaux à un enfant qui a besoin d’accéder à un centre de loisirs ? Un droit qui devrait être aussi naturel qu’aller à l’école, jouer avec les autres enfants, vivre un été normal.
Et ici, nous ne parlons pas d’un cas rare ou isolé. Nous parlons d’un système qui repose sur le principe que ceux qui ont de l’argent se débrouillent, et ceux qui n’en ont pas doivent se contenter de ce qu’ils peuvent obtenir. Nous parlons d’une gestion de l’inclusion basée sur le « qui peut se le permettre » et non sur le « qui y a droit ». Voilà la réalité de ceux qui n’ont pas de voix, de ceux qui se battent pour un droit qui devrait être garanti à tous.
Alors, que reste-t-il ? Un système éducatif qui s’arrête aux murs de l’école et oublie la vie quotidienne. Un système social qui abandonne ceux qui en ont le plus besoin, mais fait semblant de progresser avec des mots creux. Quel type d’inclusion pouvons-nous vraiment espérer si nous ne sommes même pas capables de permettre à un enfant dont l’épilepsie est contrôlée de vivre un été normal ? Est-ce là le modèle de société que nous voulons construire ? Ou est-ce simplement une autre manière de faire semblant d’agir, alors qu’en réalité, nous faisons bien peu ?
La réponse doit venir de chacun d’entre nous. La véritable inclusion se construit non seulement avec la loi, mais avec le cœur, avec la sensibilité et, surtout, avec la capacité de dire oui, de prendre un risque, d’apprendre, de ne pas fermer les yeux face aux besoins des autres. La véritable inclusion est celle qui ne laisse personne de côté, qui ne regarde pas la condition économique, qui n’a pas peur de tendre la main quand c’est nécessaire. Car nous vivons dans un pays qui se dit civilisé, mais qui oublie trop souvent de l’être vraiment.