Ci sono bandiere che ispirano. Altre che commuovono. Poi ci sono quelle che sembrano uscite da una guerra… contro il buon senso. In Valle d’Aosta, basta alzare lo sguardo su molti edifici pubblici per trovarsi davanti a un’immagine che, più che ispirare appartenenza, suscita pietà: bandiere stracciate, scolorite, sfilacciate, che pendono malinconiche da pali rugginosi come fantasmi di un’idea di patria che fu.
Se fossero solo pezzi di stoffa, poco male. Ma no: quelle sono le nostre bandiere, e il modo in cui vengono trattate è lo specchio esatto di come viene trattata – dalle istituzioni – l’identità della nostra comunità.
E così accade che l'Arer, l’Agenzia Regionale per l’Edilizia Residenziale, si distingua... non certo per efficienza o estetica architettonica, ma per un’insegna che pare prelevata da una soffitta del 1947. Una bandiera valdostana talmente consumata dal tempo e dall’indifferenza da far vergognare persino chi l’ha issata (se ancora lavora lì, beninteso).
Sembra che in certi uffici pubblici l’usura del tessuto sia direttamente proporzionale all’usura del senso civico. E non serve un censimento per rendersene conto: basta farsi una passeggiata davanti a qualche municipio, scuola o edificio regionale per assistere al carnevale del decoro perduto. I simboli che dovrebbero rappresentare il rispetto, l’identità, l’orgoglio, sembrano bandiere della resa. O peggio: dell’indifferenza.
Non si tratta solo di estetica o protocollo. Si tratta di rispetto. Di orgoglio collettivo, di senso di appartenenza, di educazione alla cittadinanza. E quando chi guida le istituzioni non è capace nemmeno di garantire la dignità simbolica degli spazi che rappresentano tutti noi, c'è da farsi qualche domanda.
Ma forse il punto è proprio questo: non gliene importa più niente a nessuno. E il cittadino medio, quello che magari avrebbe ancora un briciolo di fierezza valdostana nel cuore, finisce per rassegnarsi a quei brandelli come a un destino inevitabile. Come se anche la bandiera fosse diventata "residenziale", nel senso più degradante del termine: abbandonata a se stessa, in attesa di un restauro che non arriverà.
«Non è possibile che in certi angoli della Regione le bandiere sembrino uscite da un set post-apocalittico», direbbe un turista svizzero, abituato alla puntualità con cui a Berna si cambia un drappo scolorito. Ma qui da noi, anche i simboli sembrano sottoposti a gare d’appalto eterne, a burocrazie sonnolente e a un senso di decoro smarrito, forse insieme alla password dell’identità regionale.
La proposta è semplice: chi non si prende cura della bandiera, non può rappresentare il popolo che essa incarna. E chi guida enti pubblici dovrebbe avere l’obbligo (morale, prima che normativo) di vegliare sul valore simbolico dei luoghi che governa.
Rimettere a nuovo le bandiere, caro Arer e cari dirigenti distratti, non è folklore. È un gesto di rispetto verso la storia, verso chi ha lottato per quell’autonomia tanto sbandierata a parole quanto dimenticata nei fatti.
E ogni volta che vediamo sventolare uno di quei cenci stanchi e stracciati, un pezzo del nostro orgoglio si sfilaccia con loro. E allora viene da chiedersi: sono i simboli ad andare in brandelli, o siamo noi a essere ridotti a brandelli senza più simboli?