È morto Papa Francesco.
Solo a scriverlo, si sente un peso nel petto. Come quando muore qualcuno che, senza conoscerlo personalmente, ha abitato la nostra vita. Lo abbiamo visto sorridere, inciampare, lottare, commuoversi, pregare. E, in tutto questo, ci ha insegnato che la santità è fatta di umanità, e l’umanità – se accolta – può diventare via di Dio.
Papa Francesco non è stato un Pontefice da incorniciare, ma da vivere. Non ha parlato alla Chiesa dei dogmi, ma della carne. Non ha predicato dall’alto, ma camminando. È stato un pastore che ha scelto l’odore delle pecore al profumo del potere. Un uomo che ha preferito il rischio dell’amore alla sicurezza del giudizio.
Ha osato parole nuove, a volte scomode, sempre evangeliche. Quando disse “Chi sono io per giudicare?”, non fece una concessione alla modernità: fece spazio alla misericordia, quella vera, quella di Cristo che non condanna ma guarisce. Quando portò dodici profughi a Roma, lo fece con la forza di chi non ha paura di perdere consenso, ma di perdere umanità.
Francesco ha amato la Chiesa con passione viscerale. L’ha voluta povera, aperta, misericordiosa, più simile a un ospedale da campo che a una fortezza. L’ha voluta madre, non maestra. E per questo ha pianto sui suoi peccati, in particolare quelli più gravi, come gli abusi: non ha nascosto la vergogna, l’ha messa davanti a Dio, chiamandola per nome.
La sua voce si è alzata contro l’indifferenza climatica, sociale, spirituale. “Laudato si’” non è solo un’enciclica, è un grido di amore per il Creato. “Fratelli tutti” non è solo un titolo, è una sfida a vivere la fraternità non come valore vago, ma come missione concreta. Anche nei salotti del potere, ha portato la voce degli invisibili. Lo ha fatto al G7, come lo faceva nelle periferie argentine. Con lo stesso sguardo.
Ma ora, Francesco è tornato alla Casa del Padre. E lascia un popolo in lacrime. Una Chiesa più povera, non perché ha perso un Papa, ma perché ha perso un padre. Un padre che ci ha parlato della tenerezza di Dio, e ce l’ha mostrata. Un padre che ci ha ricordato che la fede non è paura, ma fiducia. Che la verità senza amore è un’arma, ma con l’amore è una medicina.
Lo piangono i bambini abbracciati in piazza San Pietro, i detenuti delle carceri che lui ha visitato, i migranti che ha difeso con parole che sapevano di Vangelo. Lo piangono i sacerdoti che ha incoraggiato, i religiosi che ha abbracciato, i laici che ha chiamato protagonisti. Lo piange anche chi, magari, con lui non era d’accordo. Perché, alla fine, nessuno poteva restare indifferente al suo cuore.
Sì, Francesco è morto. Ma resta. Resta nei gesti di chi sceglie la pace al posto della vendetta. Resta nei cuori di chi continua a credere che una Chiesa più umile sia una Chiesa più forte. Resta nei Vangeli aperti sul tavolo di una cucina, nel rosario stretto tra le dita di un malato, nella carezza data a un senza tetto.
Non lo sentiremo più parlare dalla loggia. Ma forse, proprio ora, lo sentiremo di più nel silenzio della preghiera. Perché i santi non ci lasciano: ci precedono.
Addio, Francesco. E grazie. Continua a pregare per noi, come tu hai sempre chiesto a noi di fare per te. Ora lo faremo davvero, ogni giorno. Perché tu sei stato uno di noi. E sarai per sempre uno di noi.