Ho deciso di andare a casa di G. perché ho saputo che non voleva per alcuna ragione al mondo lasciare la dimora nella quale ha vissuto una vita intera insieme alla sua famiglia numerosa e unita. Abita nel Quartiere Cogne G., in uno degli edifici di edilizia residenziale pubblica destinati a un imminente abbattimento e ricostruzione nell’ambito di un piano di riqualificazione urbana molto corposo.
Mi sono presentato di fronte alla porta puntuale: non ho fatto in tempo a suonare il campanello che un signore dallo sguardo fiero, gli occhi chiari e due baffi corti e piatti mi apre e fa cenno di entrare senza indugio. Sotto la coppola un viso dalla pelle arsa dal sole, rugata da milioni di colpi di vento, un passo lento, ieratico e grave insieme.
L’ingresso angusto e buio, porta a un piccolo soggiorno-sala pranzo da cui si intravede un cucinotto appena sufficiente a ospitare il fornello, una dispensa scarna e il frigo. Le pareti sono ricolme di foto di famiglia sbiadite, ma calde di affettività, incorniciate alla meglio, ma straripanti di nostalgia struggente; in ordine sparso alcuni segni di una cristianità popolare fatta di presenze sante, sorridenti e benevole.
La moglie di G. compare subito dietro il marito, appoggiata a un vecchio deambulatore, con un viso diafano, quasi trasparente: mi rivolge un sorriso fiducioso e due grandi occhi scuri, spalancati non per scrutare, ma per raccogliere.
Appena seduti, G. inizia a raccontare, con parole coriacee come i polpastrelli della sua mano, di aver conquistato il 1° luglio 1974, dopo anni di onorato servizio come operaio, questo appartamento dalla Nazionale Cogne firmando un contratto di locazione di quattro pagine che mi mostra con l’orgoglio di chi conserva ogni simbolo importante della propria esistenza come una reliquia.
Qui si pattuisce un canone mensile di 12.000 lire utenze comprese: persino il riscaldamento, peccato che non ci fosse…
Denuncia, con la severità degli onesti come, anni prima, fosse andata misteriosamente perduta la sua richiesta di casa popolare, di cui, naturalmente, aveva conservato regolare ricevuta, e come avesse scoperto – dopo molti anni da imbarazzati testimoni oculari – che la sua pratica era stata imboscata ad arte perché allora non apparteneva alla parte politica giusta.
Lamenta con desolazione lo stato di degrado in cui versa, da molti anni ormai, questo appartamento: avevo già scorto il soffitto fiorito di infiltrazioni, le pareti annerite camuffate solo in parte da un perlinato bianco, si respira un’aria ammorbata dall’umidità, le poche finestre montano infissi marcescenti…
La signora A. ricorda che nei primi anni di residenza i suoi cinque figli scorrazzavano nel prato fuori, sotto l’ombra di un ciliegio e intorno c’erano orti: allora la casa era sana, la luce abbondante tutto l’anno finché non costruirono un edificio di servizi pubblici a lato e un condominio antistante, alto oltre sei piani, uno degli orrori che hanno stravolto irreparabilmente la coerenza architettonica di un quartiere operaio tra i più interessanti d’Italia.
Da quel momento inizia la decadenza del loro appartamento e di tutto quello stabile basso, progettato sulla falsariga delle corti dei nostri borghi più antichi, con le abitazioni a schiera attaccate l’una all’altra come i metameri (i segmenti) di un millepiedi. Era durata meno di dieci anni la stagione mitica della casa di G. e A., eppure è rimasta identica fino ad ora la dignità con la quale questa coppia conserva gli spazi in ordine e pulizia, pur tra decine di suppellettili e segni minimali della loro esistenza terrena, e di quanto orgoglio trasudi da G. quando mi mostra i lavori che – con le sue stesse mani e un regolare permesso del proprietario – ha eseguito per rendere piastrellato, accessibile e funzionale un minuscolo bagno nel quale, in origine, la canna fumaria impediva di sedersi diritti sul water.
G. Ha una capacità narrativa da attore esperto: utilizza le sue espressioni facciali con grande plasticità, cambia tono di voce, gesticola con determinazione, chiarezza, dice cose drammaticamente vere perché scritte nella pelle.
La signora A. interrompe qua e là il filo del discorso tessuto dal marito con squarci di scene familiari intrise di dolore e, insieme, di una irriducibile voglia di vivere che mi ricorda gli stenti patiti dai miei genitori quando, per cena, si potevano permettere al massimo una minestrina di dado Knorr, il vestiario si comprava al mercato due volte l’anno, al cinema s’andava una volta al mese, salvo che non si dovessero affrontare spese sanitarie impreviste…
G. interpreta la vita con un pensiero semplice ma acuto, fatto di intelligenza pratica e ideali antichissimi, inossidabili; A. comprende tutto con la sapienza del cuore, si accende quando carpisce un concetto nel quale riconosce semi di verità e allora rimanda una partecipazione appassionata, accetta una volontà accorata e sincera di aiutare.
Quartiere Cogne Viale Monte Bianco
Ho promesso ai coniugi che il trasferimento prossimo permetterà loro di vivere in un luogo più salubre e luminoso e, se vorranno e potranno, una volta terminate le nuove case, sarà permesso ritornare nel medesimo appartamento rinnovato e sanificato: nessuna città al mondo può tollerare di avere in seno abitazioni così, ma le radici non vanno divelte con violenza.
Al mio congedo commosso porto con me un sentimento che giustifica la resistenza di G. a spostarsi e trasfigura le sembianze di questa dimora poverissima, il cui tempo si è fermato quarant’anni fa: in questo crogiolo ammorbato nel quale sono state generate molte vite ora sparse nel mondo, dove si sono consumati sacrifici grandi e patite sofferenze estreme resta saldo un amore tra questi sposi che colma ogni falla, sana ogni muro insalubre, sigilla tutte le finestre scardinate: solo questa forza può trasformare una grotta in un santuario.