La popolarità di Spadolini è legata all’icona forgiata dalla penna di Giorgio Forattini, che usava ritrarlo con una pancia a mongolfiera e attributi piccoli piccoli. Il suo corpo, tuttavia – a sua detta sempre meno grasso di come veniva rappresentato – emanava fiducia, assicurava stabilità in un’epoca di venti forti e mari tempestosi. Il suo volto era rubicondo e gioviale come un personaggio boccaccesco: ornato da basettone ricciolute e folte, sopracciglia arruffate ma occhi verde-azzurro acutissimi e ficcanti. Quando sorrideva, comparivano due fossette da bambino ai lati delle labbra e il grande doppio mento si stirava come un lenzuolo tra due mollette.
Ispirava un’aria casereccia il Professore di storia contemporanea della “Cesare Alfieri” prestato per trent’anni alla politica, quando appariva in televisione in modo così imponente da riempire interamente quegli schermi bombati di allora, grandi una manciata di pollici, colorati con tinte improbabili e contorni sfuocati. Era tuttavia un giornalista e intellettuale di rara finezza: quando parlava, le frasi rotolavano come praline di cioccolato su un letto di panna e i contenuti si disponevano secondo ordini rigorosi, concatenazioni logiche lineari e tempi calibrati in modo cronometrico: né troppo lunghi, né troppo corti.
Parlava con fare scandito e asseverativo, modulava intonazioni oratorie anche quando si trovava in salotto: sembrava parlasse per riferimenti, anche quando citava se stesso, perché attribuiva al suo compito il valore del condottiero di popolo, colorando la sua voce con i toni della grande Storia.
La sua erre uvulare (o alla francese), insomma la sua erre moscia gorgogliava come caffè alla bollitura e i ragionamenti scorrevano vitali e succosi quasi a imitare del vin santo, quando scende dentro un calice capiente.
La gestualità partiva spesso dalle mani a dita incrociate all’apice del ventre, ma poi marcavano in modo plastico e teatrale le sue avvincenti narrazioni dei fatti, le sue riflessioni scarne e pungenti.
Ci voleva un uomo così a rassicurare gli italiani vessati, in quel 1981, dall’inflazione al 22%, da tassi elevati di disoccupazione, da una bilancia dei pagamenti in rosso profondo, da fibrillazioni internazionali su più fronti (i missili a Comiso, la guerra delle Falkland e la nascita in Polonia di Solidarność) e da forti colpi di coda di un terrorismo brigatista ormai sulla via del declino (il rapimento del Generale Dozier).
Ci voleva un umanista radicato nella cultura risorgimentale per costringere, con severità e fermezza, a un punto d’incontro tra sindacati e imprenditori, tra una Democrazia Cristiana da pochi anni orfana di Aldo Moro, timorosa e piegata dall’esito del referendum sull’aborto, e il Partito Socialista di un Craxi ansioso di far diventare l’Italia una nazione “da bere”, come la sua Milano.
Ci voleva un uomo dall’onestà cristallina e dalla sacrale deferenza per le istituzioni repubblicane come lui per indicare in un decalogo le dieci riforme-chiave che molto tempo dopo il suo governo – e solo in parte – trovarono attuazione, rendendo più solidi i rapporti tra organi di governo e presidenza, tra autonomie locali e Stato. (Spadolini con il Presidente della Repubblica Sandro Pertini)
Due cose stavano alla radice dell’opera politica di questo fiorentino verace. La prima è che non conosceva solo a menadito la Storia risorgimentale: l’aveva addirittura riscritta liberandola da agiografie, mitizzazioni e storture patriottarde. Perciò sapeva che nella neonata Italia unita fino all’avvento del fascismo le posizioni liberali e quelle riformiste non agirono mai, come in altre parti d’Europa, per fronti radicalmente contrapposti, ma governavano per intese, seppure rappresentando di fronte agli elettori l’uno alternativa di governo dell’altro e viceversa.
Solo in questo modo si era riusciti a tenere insieme tutte le differenze di una terra benedetta dalle individualità più geniali del mondo, dai paesaggi più vari, dalle coscienze più libere: ancora oggi, nulla è cambiato, occorre la medesima forma d’energia per progredire.La seconda è la sua interpretazione eccentrica del suo servizievole impegno per la nazione: non proveniva dalle scuderie dei partiti politici e dunque non cadeva in quel rischio di professionismo autoreferenziale frequente in chi nasce, cresce in seno allo stesso alveo d’idee e opere, principale causa di allontanamento della gente dalla politica. Invece, questo professore, già direttore di due quotidiani di caratura nazionale come Il Resto del Carlino e il Corriere della Sera fondava il suo agire sulla sterminata cultura che possedeva, non per ostentarla, ma per far fiorire l’intuizione, la fantasia sintetizzando e trasformando la realtà con idee divergenti, con programmi inediti, come per un atto artistico. (Spadolini tra la gente)
Lui stesso diceva: la politica non è una scienza, anche se esiste nelle università: è un’arte.
Per questo, anche noi ne siamo stati rapiti.