Ci sono decisioni che non fanno rumore, non riempiono talk show né scatenano polemiche da social, ma che segnano un cambio di passo culturale profondo. L’introduzione del congedo didattico mestruale negli Istituti di istruzione superiore “Quinto Orazio Flacco” e “Da Vinci-Nitti” di Potenza è una di queste. Una scelta che non ha nulla di ideologico e molto di concreto: riconoscere che il benessere psicofisico delle studentesse è parte integrante del diritto allo studio.
Parliamo di una misura semplice, quasi disarmante nella sua normalità. In presenza di forti dolori mestruali, documentati, le studentesse possono assentarsi senza che questo diventi una penalizzazione, un’assenza “colpevole”, una corsa a giustificazioni improbabili. Non un privilegio, ma un atto di realismo. Perché il ciclo mestruale non è un’opinione, né una scusa, ma una condizione fisiologica che, per molte ragazze, comporta dolore, affaticamento, difficoltà di concentrazione.
La scuola di Potenza ha scelto di non far finta di niente. Ha deciso che educare significa anche riconoscere i limiti del corpo, rispettarli, integrarli nella vita scolastica. È una scelta che rompe con una lunga tradizione di silenzi e minimizzazioni, quella per cui “si è sempre fatto così” e quindi si continua a fare così, anche quando così non funziona più.
C’è poi un altro aspetto che merita di essere condiviso: questa misura non sottrae nulla alla didattica, non abbassa l’asticella, non crea scorciatoie. Al contrario, rafforza l’idea di una scuola che accompagna, che comprende, che responsabilizza. Una scuola che non confonde l’uguaglianza con l’indifferenza e che sa distinguere tra parità e uniformità forzata.
In un Paese dove ancora oggi il tema delle mestruazioni è spesso trattato con imbarazzo, ironia o fastidio, la scelta dei due istituti lucani ha anche un valore educativo più ampio. Normalizza ciò che normale è, toglie il ciclo mestruale dal cono d’ombra, lo porta nello spazio pubblico della scuola con rispetto e senza clamore. È educazione civica nel senso più profondo: insegnare a convivere con le differenze senza trasformarle in stigma.
Certo, qualcuno storcerà il naso. Succede sempre quando si prova a innovare partendo dalle persone e non dalle regole astratte. Ma è proprio qui che sta il punto: la scuola non è solo un luogo di programmi e verifiche, è una comunità viva fatta di corpi, menti, emozioni. Ignorarlo significa educare a metà.
L’esperienza di Potenza merita attenzione, riflessione e, perché no, imitazione. Non come modello rigido, ma come stimolo. Perché se la scuola vuole davvero essere inclusiva, deve saper guardare in faccia la realtà quotidiana degli studenti e delle studentesse. Anche quando quella realtà è scomoda. Anche quando riguarda il corpo.
Forse è da qui che passa una scuola più giusta: non dall’ennesima riforma calata dall’alto, ma da gesti concreti che riconoscono la complessità della vita. E insegnano, con l’esempio, che prendersi cura delle persone non è una concessione, ma una responsabilità educativa.