Non è solo la presentazione di un libro: è un ritorno a casa, nella lingua che per molti valdostani è ancora il respiro più autentico. Venerdì 5 dicembre, nella sala consiliare del Comune di Gressan, alle 18, verrà presentato “Ëpeluye – Étincelles – Faville”, l’ultimo lavoro del poeta Marco Gal, scomparso nel 2015. Una raccolta minuta solo in apparenza, perché le sue “scintille” hanno la forza gentile delle parole che restano, che si infilano nelle crepe del quotidiano e lo illuminano.
Il volume, pubblicato da puntoacapo Editrice, porta la firma attenta del critico e amico Giuseppe Zoppelli, che nella prefazione scrive parole che sembrano già tradurre l’essenza di Gal: un’opera fatta di brevi lampi, di versi che non temono la fragilità della durata, perché proprio in quella brevità trovano il loro compimento. Il suo richiamo al patois, che qui non è un semplice strumento linguistico, ma la chiave di una percezione sensoriale amplificata, restituisce un’immagine preziosa: quella di una poesia che tocca il limite dello stordimento senza mai cedere al disordine, vigilata da una ragione che rimane limpida, quasi luminosa. E il riferimento all’avverbio paai — così tipico, così nostro — rivela quanto profondamente la lingua della tradizione diventi per Gal una struttura logica, un modo di pensare oltre che di parlare.
Ma quello di Gressan non sarà un semplice incontro letterario. Accanto al curatore e all’editore ci saranno Lea Gal, sorella del poeta, e Rudy Chabod, giovane studioso che si è laureato con una tesi su Marco Gal, segno che l’opera di questo autore continua a creare risonanze nelle nuove generazioni. A leggere, interpretare e dare voce ai testi ci penseranno la Corale Louis Cunéaz e i lettori dell’Abro de Feur, della compagnia Passe-Partout e del Circolo del Cardo: un intreccio di voci che sembra quasi restituire al patois il suo luogo naturale, quello della comunità, della coralità, del racconto condiviso.
Commissione Biblioteca di Gressan ha costruito un appuntamento che è molto più di una presentazione: è un gesto culturale, un atto di cura verso una lingua che ancora oggi, malgrado tutto, sopravvive nella sua capacità di scaldare, di unire, di custodire la nostra identità. E forse proprio qui sta il senso profondo delle “faville” di Marco Gal: piccole luci che non pretendono di diventare incendio, ma che continuano a brillare ostinate nel buio, ogni volta che qualcuno sceglie di ascoltarle.