CULTURA - 26 novembre 2025, 12:00

Le voci della Valle: un viaggio tra gli scrittori valdostani

La letteratura valdostana non è da salotto o da premio nazionale: è letteratura di resistenza culturale, che nasce dal bisogno profondo di non scomparire, di lasciare traccia, di dire: noi ci siamo, noi abbiamo una voce

L'Abbé Jean-Baptiste Cerlogne e Mauro Caniggia Nicolotti

"Ieri stavo leggendo il blog di uno scrittore valdostano che non conosco personalmente, ma di cui seguo spesso la pagina Facebook. (Sì sì, non arricciate il naso: esistono anche in Valle degli scrittori!). Da lì mi è nata la curiosità: ma noi, in Valle, abbiamo avuto degli scrittori? C’è stato qualcuno che abbia dedicato il suo tempo a scrivere e a raccontare?"

C'è una Valle d'Aosta che forse non conosciamo abbastanza. Non quella delle piste da sci o dei castelli perfettamente restaurati, ma quella che vive nelle parole, nei versi dimenticati, nelle cronache di pietra e nelle poesie sussurrate in patois. È una valle che ha saputo raccontarsi, secolo dopo secolo, con voci diverse ma tutte radicate nello stesso suolo.

Tutto comincia nel Medioevo, quando i signori di Challant non si accontentavano di dominare la valle con le armi, ma volevano anche lasciare traccia di sé attraverso la scrittura. Pierre Du Bois, nel Quattrocento, compone la Chronique de la maison de Challant, un affresco storico che è insieme memoria e letteratura. E, ancora prima, Bonifacio di Challant fa incidere versi celebrativi sulle pareti del castello di Fénis, come a dire: noi non passiamo, noi restiamo. Sono i primi segnali di una cultura che non vuole svanire.

Ma è nell'Ottocento che accade qualcosa di straordinario. Un bambino valdostano, figlio di contadini, cresce tra i pascoli e le voci del villaggio. Impara il patois sulle ginocchia della madre, quella lingua che sembra troppo piccola, troppo locale per essere presa sul serio. Quel bambino diventa sacerdote e si chiama Jean-Baptiste Cerlogne. Avrebbe potuto dimenticare il dialetto, abbracciare il francese o l'italiano, le lingue della cultura ufficiale. Invece fa l'opposto: trasforma il patois in poesia.

Cerlogne non è un poeta romantico che cerca l'assoluto. È un uomo concreto, che canta la fatica dei montanari, le piccole gioie, le stagioni che scandiscono la vita alpina. Ma, soprattutto, inventa un sistema ortografico per il patois, raccoglie proverbi, fissa sulla carta ciò che rischiava di sciogliersi come neve al disgelo. Con lui, il dialetto non è più solo parlata popolare: diventa lingua letteraria, capace di emozionare e resistere. Cerlogne è il fondatore, il padre della poesia francoprovenzale valdostana, e ancora oggi è impossibile parlare di letteratura valdostana senza partire da lui.

Accanto a lui, nell'Ottocento, si muove Léon-Clément Gérard, poeta e figura di spicco della cultura locale. E, più avanti, nel Novecento, arriva Robert Berton, difensore appassionato della tradizione valdostana, autore di testi che contribuiscono a mantenere viva la memoria culturale della regione. Sono figure diverse, ma accomunate dalla stessa urgenza: dare voce a una terra che rischiava di restare ai margini della grande storia.

Poi c'è chi decide di portare la Valle d'Aosta dentro generi inaspettati. Felice Rolla, per esempio, sceglie il giallo e ambienta un delitto sul ghiacciaio. È un modo diverso di raccontare la montagna: non più solo luogo di memoria e tradizione, ma anche scenario di intrighi, suspense, contemporaneità.

E oggi? Oggi c'è Mauro Caniggia Nicolotti, che non scrive cronache nobiliari né poesie in patois, ma raccoglie qualcosa di altrettanto prezioso: i frammenti di vita quotidiana, gli episodi che illuminano la storia minuta di un paese. I suoi testi sono brevi racconti, aneddoti, ricordi legati alla memoria familiare e al paesaggio valdostano. È come se raccogliesse i fili di un tessuto che altrimenti si sfilaccerebbe. Se Cerlogne salvava la lingua, Caniggia custodisce la memoria di ogni giorno, quella che rischia di perdersi nel ritmo veloce dell'oggi.

La letteratura valdostana è questo: un cerchio di voci che si passano il testimone. Dal Medioevo ai giorni nostri, dal francese al patois, dalla cronaca nobiliare al diario personale. Non è letteratura da salotto o da premio nazionale: è letteratura di resistenza culturale, che nasce dal bisogno profondo di non scomparire, di lasciare traccia, di dire: noi ci siamo, noi abbiamo una voce.

E forse è proprio questo il suo valore più grande. Questi scrittori non sono autori “regionali” nel senso limitante del termine. Sono uomini e donne che hanno trasformato una piccola lingua alpina in un patrimonio culturale vivo, capace di dialogare con la grande tradizione francese e italiana senza perdere la propria identità. Hanno dimostrato che la cultura di un popolo non si misura dalla sua potenza, ma dalla sua capacità di raccontarsi.

Così, quando oggi camminiamo per le strade di un paese valdostano, quando sentiamo risuonare qualche parola in patois, quando leggiamo una targa su un castello, non stiamo solo attraversando un paesaggio. Stiamo attraversando un racconto che continua, pagina dopo pagina, voce dopo voce, da secoli. E che, se lo vogliamo, continuerà ancora.

Vittore Lume-Rezoli