Chi è cresciuto tra le montagne della nostra Valle ricorda bene il caro vecchio diario di scuola: scritto in bella calligrafia, custodito con cura, era il nostro specchio quotidiano. Bastava una nota della maestra — “Si comunica alla famiglia che l’alunno si è comportato male…” — per farci tremare. Ogni pagina era un frammento di vita: compiti, voti, esercizi, promesse e delusioni. Un piccolo archivio personale, semplice e diretto.
Oggi, da nonno, mi trovo davanti a un cortocircuito culturale. Il diario esiste ancora, ma non basta più. Per sapere cosa deve fare mio nipote devo accedere a Classe Viva, poi a Classroom, poi incrociare le dita. Il digitale ha invaso la scuola, ma non sempre con chiarezza. E mi chiedo: era davvero necessario complicare così tanto?
Non ho nulla contro la tecnologia. I nostri ragazzi devono conoscerla, usarla, dominarla. Ma a scuola, guidati da insegnanti preparati, capaci di spiegare non solo gli strumenti ma anche i rischi. Il problema è che oggi non sono gli alunni a dover essere digitali, ma i genitori. E non tutti possono permettersi computer, smartphone, connessioni stabili. In una comunità come la nostra, dove il senso di solidarietà è forte ma le risorse non sempre lo sono, questo crea disuguaglianze.
I dati sono preoccupanti. I bambini tra i 6 e i 10 anni passano in media 4–5 ore al giorno davanti agli schermi. Gli adolescenti superano le 7 ore. Anche i più piccoli, sotto i 2 anni, vengono spesso “calmati” con un tablet. L’età di primo accesso agli smartphone si abbassa ogni anno. E il confine tra studio e intrattenimento si fa sempre più sfumato.
Molti Paesi stanno facendo marcia indietro, limitando l’uso degli schermi a scuola. Noi, invece, sembriamo accelerare. Ma se sommiamo le ore di studio a quelle passate davanti a uno schermo, rischiamo di compromettere lo sviluppo emotivo e relazionale dei nostri figli. Forse è tempo di tornare a un po’ di sana semplicità. Di ripensare il rapporto tra memoria, educazione e tecnologia. E di chiederci, come comunità: stiamo davvero aiutando i nostri bambini a crescere?
A volte, come nonno, mi domando che mondo stiamo preparando per le generazioni future. Tutti speriamo che sia migliore, più giusto, più consapevole. Ma poi basta una semplice domanda per far vacillare questa speranza. Provate anche voi a chiedere ai vostri nipoti: “Cosa fareste se, da un momento all’altro, non ci fosse più energia elettrica?”. Li vedrete sgranare gli occhi, impallidire, balbettare. Per molti di loro, il mondo finirebbe. È impensabile vivere senza corrente. Tutto è dato per scontato: la luce, il frigorifero, la televisione.
Quando racconto che ai miei tempi la TV era in bianco e nero, che i telefonini e i computer non esistevano, mi guardano increduli e ridono: “Nonno, non prenderci in giro!”. Sono bastate due generazioni e il mondo è cambiato radicalmente.
Siamo passati dalle classi multietà, con quindici alunni e una sola maestra che insegnava tutto, a una società dove tutto sembra dovuto e nulla più meritato. Oggi pare che gli insegnanti abbiano timore di dare una nota o un brutto voto, per paura della reazione dei genitori. L’autorità educativa si è fatta fragile, incerta.
Io, come nonno, posso trasmettere ai miei nipoti il rispetto, l’educazione, i valori fondamentali. Posso raccontare, testimoniare, accompagnare. Ma non posso sostituirmi agli insegnanti. L’educazione è un patto collettivo, una responsabilità condivisa.
E se vogliamo davvero lasciare un mondo migliore, dobbiamo ricominciare da lì: dal coraggio di educare, dalla forza della memoria, dalla dignità del sapere.