Dal mito di Cincinnato alla realtà di oggi, dove chi governa si aggrappa ai cavilli per giustificare l’ingiustificabile. In Valle d’Aosta come a Roma, l’umiltà e il rispetto delle regole sembrano diventati optional.
Chi di noi ha studiato la storia romana sicuramente avrà un piccolo ricordo di lui: Lucio Quinzio Cincinnato, console romano nel 460 a.C. e due volte dittatore, nel 458 e nel 439 avanti Cristo. È ricordato come simbolo di virtù civica e umiltà: infatti, dopo aver salvato Roma in momenti critici, rinunciò al potere e tornò a coltivare i suoi campi.
Oggi personaggi così ce li possiamo scordare. Soprattutto in Italia, dove chi – dopo aver servito il Paese – si sia ritirato a vita privata (o anche solo abbia rinunciato a cariche pubbliche o a incarichi in aziende legate alla politica) è ormai una rarità. Potevi essere stato assessore o presidente, ma difficilmente, finito il tuo incarico, tornavi al tuo vecchio lavoro di tornitore in fabbrica o di commesso ai grandi magazzini.
E no, ormai sei entrato nella cerchia elitaria: fai parte della classe dominante. Ed ecco che ti si prospettano vari incarichi. Che dire, la presidenza di un traforo? Una società che gestisce acque o discariche? O magari qualche partecipata in chissà che cosa. Non capisci una beata cippa di energia green? Poco importa: direttore amministrativo, o che so, presidente onorario delle foreste di larice. Stai tranquillo: se non c’è, qualcosa te lo inventiamo. Questa è la politica da settant’anni a questa parte.
La cosa che spiace è che ci sentivamo un po’ degli eletti — intendo come cittadini. Guardavamo a Roma capitale con un certo senso di disprezzo, e ancora sentivamo riecheggiare in lontananza il famoso detto “Roma ladrona... non perdona”. Ci cullavamo in una specie di esaltazione d’essere migliori, diversi.
Non poche volte citavamo le parole di Émile Chanoux e le recitavamo quasi con orgoglio: ci sentivamo davvero delle fiaccole, quelle che illuminavano il mondo con le loro idee di uguaglianza e fraternità. Orgogliosi montanari, difensori di valori. Credetemi, mentre scrivo sorrido amaramente pensando che faccio parte di quella fetta di pirla che in questo ci ha creduto.
E come diceva Adriano Celentano nella sua famosa canzone: “Prendo il giornale e leggo che di giusti al mondo non ce n’è...”. A risentirla oggi, c’è davvero da dire che mai canzone fu più profetica.
Da genitore ho insegnato ai miei figli che se ci sono delle regole, vanno rispettate — a malincuore, molte volte, perché ci fanno rinunciare a cose piacevoli — ma restano la base per vivere in famiglia e in società.
Ma se sono proprio quelli che scrivono le regole i primi a non rispettarle e a creare cavilli e scuse per fare ciò che vogliono, ecco che l’intero castello crolla.
Vedere presidenti e assessori aggrapparsi a cavilli e interpretazioni, come il presidente Testolin, è — a parer mio — uno schiaffo ai principi fondamentali del rispetto della democrazia. Con che coraggio chiedi poi ai tuoi cittadini di rispettare le regole?
Mi sembra di sentire un certo ministro che afferma: “Secondo me il blocco è una violazione del diritto. Comunque, quello che dice il diritto è importante fino a un certo punto.” Ma fino a quale punto? Chi determina questo punto? Diventa una libera interpretazione? E allora il diritto non è che una banale opinione che ognuno di noi può avere e usare a proprio uso e consumo.
Ho la netta impressione che ormai non si tratti più nemmeno di non rispettare le regole, ma più palesemente di una totale mancanza di rispetto per la società. Arrivati a un certo punto, sembra che in noi scatti l’onnipotenza di poter fare e decidere.
Gran brutto segno per una piccola comunità come la nostra, che era convinta di avere gli anticorpi contro il malaffare e la mala politica.
Caro Cincinnato, ci manchi e non poco. Fa male vedere che il tuo esempio non viene seguito da nessuno.