ATTUALITÀ - 06 ottobre 2025, 12:00

Non si può costruire nulla sulla sofferenza di un bambino

Dalle piazze ai social, il conflitto si trasforma in odio quotidiano. Tra slogan, insulti e indifferenza, il valore della solidarietà sembra smarrito. Eppure, la misura dell’umanità resta quella di Dostoevskij: il dolore di un solo bambino

Oggi leggo sempre più spesso analisi, post o semplici commenti su ciò che sta accadendo — non solo in Italia, ma nel mondo — riguardo alle manifestazioni pro Palestina.
Tralasciando ciò che succede altrove, voglio soffermarmi su quello che accade a casa nostra.

Inizio da una semplice osservazione su ciò che si vede sui social: Instagram, Facebook e altri. La prima cosa che salta all’occhio è il solito dualismo partitico, ma con un’aggravante che mai mi sarei aspettato: l’odio.
Un odio che non è più latente o strisciante, ma chiaro, esplicito, sfrontato.
Non si usano concetti, non si argomenta con veemenza: no, si leggono frasi come «sparategli», «affogateli», «meritavano di peggio», «fateli marcire in galera».
In alcuni casi si scende nell’offesa più volgare e degradante, talvolta legata all’appartenenza sessuale. E qui, davvero, ho letto cose aberranti.
Ma se siete utenti Facebook, non serve aggiungere molto: vi basta scorrere e ne trovate a decine.

Ora, se eliminiamo i cosiddetti troll — profili creati forse da qualche programmatore o società pagata da non si sa bene chi, per seminare odio o sostenere una parte politica — ci rimangono le persone vere.
Quelle che, scientemente e in piena coscienza, esprimono il loro odio.
E parlo di odio, non di disappunto: avere opinioni diverse è più che legittimo. È come essere tifosi di una squadra o di un’altra — esempio forse riduttivo, ma utile a far capire che si può essere avversari, sportivi o politici, senza scendere nell’offesa, nello scontro, né verbale né fisico.

Davanti a questi post o commenti, mi sono posto una domanda:
si può — o si deve — tentare di salvare un essere umano?
Si può — o si deve — difendere una donna da un tentativo di stupro?
Si può — o si deve — difendere i diritti di una persona?
E, soprattutto: possiamo restare indifferenti davanti alla sofferenza di qualcuno solo perché non è italiano come noi, o non è bianco come noi, o non è cattolico come noi?

Il secondo punto riguarda i sindacati, o meglio la loro presa di posizione.
Fin da subito, hanno manifestato pieno e totale appoggio alla causa palestinese. Dapprima con un sostegno verbale, poi con la decisione di indire non più soltanto manifestazioni, ma uno sciopero generale.
Apriti cielo.
Immediatamente si sono scatenate vere e proprie battaglie contro i sindacati, accusati di far parte di una politica che difende i terroristi.
Attacchi contro Landini, segretario della CGIL, accusato di tutto: mancava solo che lo incolpassero dei droni sulla Svezia.
Ho letto cose da far vergognare qualunque essere umano.

Da una marea di gente si levava il grido: «Prima gli italiani!», «Fate sciopero per i lavoratori!».
Peccato che molti di loro siano tra quelli che, al referendum sul lavoro, hanno preferito andare al mare.
Sono convinto che, se metà di coloro che oggi sostengono che si debba scioperare solo per i lavoratori italiani fosse andata a votare ai referendum di giugno, il referendum avrebbe vinto con il 100% dei voti.

A chi dice che gli scioperi non servono, vorrei ricordare che è proprio grazie agli scioperi se molti diritti oggi esistono: la sicurezza sul lavoro, la malattia pagata, i contratti collettivi.
E grazie agli scioperi abbiamo ottenuto anche diritti civili fondamentali: l’aborto, il divorzio, l’abolizione del delitto d’onore.

Qualcuno sostiene che lo sciopero non debba creare disagi né ledere i diritti dei cittadini.
E qui si apre un dibattito infinito.
Da una parte c’è chi afferma che lo sciopero deve creare disagio, altrimenti non raggiunge il suo scopo; dall’altra, chi dice il contrario.
La domanda, però, resta: un po’ di disagio vale la vita di un essere umano?

Mille domande e mille risposte.
Ma una cosa è certa: il nostro modo di pensare, ragionare e agire varia sempre in base a un principio di egoismo.
Se una cosa non ci tocca, non ci interessa.
Ma se ci tocca direttamente, allora tutto cambia.

E voglio chiudere con le parole di Fëdor Dostoevskij:

“Non si può costruire nulla sulla sofferenza di un bambino.”

Un pensiero che, oggi più che mai, dovrebbe tornare a guidare il nostro senso di umanità.

Vittore Lume-Rezoli