Il tutor, strumento ormai familiare a chi percorre le autostrade italiane, è destinato alla pensione. Al suo posto arriverà Navigard, un sistema presentato come “rivoluzionario” e già in fase di sperimentazione, che dovrebbe entrare in funzione nel 2026. Non si tratta di un banale aggiornamento: Navigard è pensato come un vero ecosistema di sorveglianza, capace di monitorare non solo la velocità media ma anche quella istantanea, come un autovelox potenziato e diffuso.
Il cuore dell’innovazione risiede nella capacità di integrare diverse tecnologie: radar, videocamere, sensori installati nel manto stradale, tutti collegati a una control room inaugurata a Roma lo scorso luglio. Questo centro di comando riceverà in tempo reale informazioni sui flussi di traffico, sui veicoli che superano i limiti di velocità, su quelli che percorrono contromano un tratto autostradale e persino sul peso effettivo dei mezzi pesanti, che saranno “pesati al volo” senza bisogno di fermarsi alle bilance. Non mancheranno controlli puntuali sulle corsie di sorpasso, troppo spesso abusate dai camion, con possibilità di bloccare immediatamente i trasgressori.
A detta dei promotori, Navigard non solo renderà più sicure le strade ma contribuirà anche a una gestione più efficiente della rete autostradale, lunga oltre 7.400 chilometri. La narrazione ufficiale è quella di una svolta tecnologica necessaria, capace di prevenire incidenti e garantire ordine in un contesto di traffico sempre più complesso e congestionato. Ma dietro la retorica della sicurezza si intravede un’altra realtà: quella di un sistema che rischia di trasformarsi nell’ennesimo strumento di sorveglianza e di sanzione.
Il dibattito che ha accompagnato l’annuncio lo dimostra. C’è chi esulta, ricordando come gli eccessi di velocità siano ancora una delle principali cause di incidenti gravi. Ma non mancano le critiche: il sospetto diffuso è che, più che alla tutela della vita degli automobilisti, il Navigard possa servire ad alimentare le casse dello Stato e delle concessionarie autostradali. L’ennesima “macchina da multe”, insomma, mascherata da dispositivo di sicurezza.
Il rischio è che si scivoli verso una logica di controllo permanente, dove l’automobilista non è più un utente della strada ma un soggetto da monitorare, classificare e – all’occorrenza – sanzionare. Una forma di panopticon digitale che, nel nome della sicurezza, accentua la sensazione di essere sempre sotto osservazione. Con l’aggravante che le nuove tecnologie, come la pesatura in corsa o il riconoscimento immediato dei comportamenti anomali, non lasceranno più margini di errore né possibilità di contestazione.
Siamo davvero sicuri che questa sia la strada giusta? Forse basterebbe applicare con rigore le regole già esistenti, rafforzare i controlli umani laddove servono e investire in educazione stradale. Invece si sceglie la via più semplice: delegare tutto a un algoritmo e a una rete di telecamere che vedono e registrano ogni cosa. Una svolta che può sembrare inevitabile, ma che lascia aperta una domanda cruciale: stiamo andando verso strade più sicure o verso un’autostrada digitale in cui la libertà di circolare sarà sempre più condizionata dal Grande Occhio elettronico?