Un volto tondo e liscio era quello di Giorgio la Pira, senza spigoli, senza punte. In quella sfera stempiata, ma ornata alla cima da un civettuolo, rigonfio ciuffo, si posavano due labbra carnose quasi sempre tirate al sorriso, le sopracciglia spesse e incolte, un paio d’orecchie appuntite e gli occhi stretti, seppur deformati dalle lenti concave d’occhiali grandi, neri e pesi.
A proposito delle parole, queste ultime erano pronunciate con tono scandito, una velocità di pronuncia irregolare, ora precipitosa ora lenta e accentata. Lo stile di fraseggio impiegava periodi paratattici, ovvero con una prevalenza di frasi principali senza troppe divagazioni, evitando di confondere le acque con affluenti concettuali inquinanti così da risultare comprensibile a tutti, schietto come – direbbe Montale – “la cima di una giovinetta palma”.
Come spesso capita, non fu un fiorentino di sangue a cogliere questa impronta, ma un siculo di Pozzallo, nato con l’Africa in fronte e il Mare Nostrum nel cuore, salito lungo lo stivale per seguire il suo maestro e approdato in riva all’Arno per studiare diritto romano, ovvero le fondamenta giuridiche della convivenza civile adottata per tredici secoli nel Mediterraneo antico.
LaPira e quel the di pace con Ho Chi Minh
Giorgio La Pira fu eletto sindaco nel 1951, dopo una stagione di legislatore nell’Assemblea Costituente e una breve, sofferta avventura parlamentare. La sua piena realizzazione di uomo santo la raggiunse dando voce a un’idea di città insieme greca e medievale, nella quale si riconoscono un mistero e una vocazione: mentre le nazioni sono linee artificiali segnate sulla cartina geografica e imposte – spesso con atti violenti – ai vivi, gli agglomerati tra persone che scelgono di crescere fianco a fianco sono organismi viventi mossi dalla consapevolezza di come sia impossibile, per ciascuno, bastare a se stesso, di come sia necessario stare uniti per salvarsi e tutto questo risulti maledettamente precario…
La dimensione misteriosa sta nel fatto che ogni luogo ispira una specifica forma di convivenza, attira persone con storie differenti e provenienze remote capaci di fondersi attorno a un cuore identitario immutabile, incarnato nelle pietre, nei fiumi e nelle terre intorno: i nuovi arrivi modificano il tessuto sociale, ridisegnano gli spazi ma non possono evitare di respirare umori persistenti da millenni, di ricalcare le impronte dei predecessori sottraendoli all’oblio.
La vocazione è quella di propulsore di pace: proprio perché una città si fregia di una personalità comunitaria forte non teme le differenze: esse non ne scalfiscono la riconoscibilità, se mai contribuiscono a farla trasformare lentamente nel tempo per unire al passato il futuro. Solo partendo da questa condizione è possibile “costruire ponti” tra i popoli più lontani, facendo dialogare le singole città prima delle rispettive nazioni di appartenenza convergendo, attraverso il confronto e il dialogo, su temi che trascendono gli interessi di un gruppo perché coinvolgono tutti gli esseri umani, senza esclusioni, tutte le forme della natura, senza distinguo.
La Pira, che risultava ai professionisti della politica come un ingenuo devoto dalla voce stridula e il fare enfatico, sempre un po’ esuberante rispetto al rigore dei protocolli, adoprava la spericolatezza del visionario quando si vantava d’aver indebitato il comune per dare lavoro e casa ai poveri della sua città nel nome della lotta alle disuguaglianze anzi, lamentandosi di averlo fatto troppo poco; fu sospettato di complottare con i comunisti quando nel 1965 si recò ad Hanoi, al cospetto di Ho Chi Minh, per presentargli una proposta di pace per la guerra nel Vietnam, subito affondata dai poteri forti americani, ma poi ripresa undici anni dopo dai definitivi trattati di pace.
La coerenza assoluta di quest’uomo tra ascesi e vita operosa, tra preghiera e lavoro concreto e ficcante alimentano la mia speranza: che anche noi possiamo concorrere per una infinitesima parte a condurre il grande fiume verso un mare libero di unità e pace. Chi sa quando, ma ci arriveremo e comunque moriremo appagati dal pensiero di averci provato fino in fondo e non da soli, ma con un’intera città intorno.