Parlavo la scorsa volta dei mistici della politica, indicando in Mino Martinazzoli uno degli esponenti più autorevoli. Sottolineavo il loro sguardo verso l’Oltre, un orizzonte irraggiungibile cui tendere la propria energia vitale, mobilitare le intelligenze. Accennavo alla consapevolezza di come un impegno pubblico fosse segnato da un destino di navigazione turbolenta, tempestata di difficoltà e dalla vicinanza costante con lo spettro del fallimento, anche e soprattutto quando le folle osannano.
E infine modera, nella consapevolezza che, come Martinazzoli ricordava spesso, la moderazione in natura non esiste, perché ciascuno è portatore di interessi e questi sono necessariamente di parte: il compito della politica è proprio di trovare un modo per stemperare le acidità e trovare il mélange utile a favorire una conciliazione, che corrisponde al bene condiviso. E tale punto d’incontro non è sugli interessi, ma sullo sfondo culturale nel quale tutti si possono riconoscere: è indispensabile spostare il piano verso l’alto, trascendere dai fatti contingenti, unico espediente per progredire tutti nella comprensione degli obiettivi l’uno dell’altro.
Mino dice: “la politica va intesa anche come rispetto della minoranza contro gli abusi della maggioranza”, nel nome della centralità della persona e di una Martinazzoliuniversalistica speranza cristiana. Certo, un politico mistico non può fare l’anacoreta, isolandosi dal mondo per conoscerlo totalmente, ma è chiamato a coltivare un’altra forma di solitudine: quella della distanza vissuta in mezzo al mondo, una sfuggenza continua percepita da tutti, affascinati per un verso, e dunque desiderosi di impossessamento, eppure respinti da una forma di misteriosa inafferrabilità.
Martinazzoli con PIetro Ingrao
Quello del mistico è un contatto carnale, ma esaurito nell’intelletto e si realizza nell’atteggiamento acquietato e lento di chi ha macerato in modo così totalizzante esperienze appassionate, fantasiose e veritiere nella sua più remota intimità da poterle distillare in parole esatte, scabre, adamantine recitate a braccio, senza appoggio di scritti meditati. Infine, un politico mistico trascende il tempo della cronaca, del “presentismo” e delle misere storie individuali per cimentarsi in due arti: quella della profezia, immaginando un po’ oltre la maggior parte delle persone, per indicare a loro e a se stesso una via credibile – oltre che possibile – da seguire, e in quella della ricerca delle radici nella Storia. A tal proposito, Martinazzoli ricordava spesso il suo amato Manzoni, che come lui era un saggio orafo della lingua, quando, nel cap. XXVII dei Promessi Sposi, affermava per bocca di Don Ferrante “Ma cos’è la storia senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida.”
Z
Zaccagnini e Martinazzoli
Dunque, la storia dell’uomo ha bisogno di raccontare degli strumenti, degli stili e delle forme di organizzazione necessarie alla convivenza civile dei popoli affinché l’umanità viva il più a lungo possibile, nel modo migliore possibile, contrastando tutte le forme individuali e collettive di morte; parimenti, non c’è popolo capace di autodeterminarsi e costruire forme sostenibili di libertà che non conservi e ripensi continuamente la propria storia. Un uomo come Martinazzoli non poteva accettare il Nulla della politica che nella seconda metà degli anni ’90 si profilava all’orizzonte, dove il Parlamento – lui disse – da luogo della rappresentanza si stava trasformando irreparabilmente in luogo delle rappresentazioni: non si cercava più la verità dall’incontro tra forze contrapposte, ma ci si limitava a mettere in scena una commedia da pupari, una saga grottesca di comparse destinate rapidamente a sparire sotto una tempesta di tweet.