La popolarità di Spadolini è legata all’icona forgiata dalla penna di Giorgio Forattini, che usava ritrarlo con una pancia a mongolfiera e attributi piccoli piccoli. Il suo corpo, tuttavia – a sua detta sempre meno grasso di come veniva rappresentato – emanava fiducia, assicurava stabilità in un’epoca di venti forti e mari tempestosi. Il suo volto era rubicondo e gioviale come un personaggio boccaccesco: ornato da basettone ricciolute e folte, sopracciglia arruffate ma occhi verde-azzurro acutissimi e ficcanti. Quando sorrideva, comparivano due fossette da bambino ai lati delle labbra e il grande doppio mento si stirava come un lenzuolo tra due mollette.
Parlava con fare scandito e asseverativo, modulava intonazioni oratorie anche quando si trovava in salotto: sembrava parlasse per riferimenti, anche quando citava se stesso, perché attribuiva al suo compito il valore del condottiero di popolo, colorando la sua voce con i toni della grande Storia.
La sua erre uvulare (o alla francese), insomma la sua erre moscia gorgogliava come caffè alla bollitura e i ragionamenti scorrevano vitali e succosi quasi a imitare del vin santo, quando scende dentro un calice capiente.
La gestualità partiva spesso dalle mani a dita incrociate all’apice del ventre, ma poi marcavano in modo plastico e teatrale le sue avvincenti narrazioni dei fatti, le sue riflessioni scarne e pungenti.
Ci voleva un uomo così a rassicurare gli italiani vessati, in quel 1981, dall’inflazione al 22%, da tassi elevati di disoccupazione, da una bilancia dei pagamenti in rosso profondo, da fibrillazioni internazionali su più fronti (i missili a Comiso, la guerra delle Falkland e la nascita in Polonia di Solidarność) e da forti colpi di coda di un terrorismo brigatista ormai sulla via del declino (il rapimento del Generale Dozier).
Ci voleva un umanista radicato nella cultura risorgimentale per costringere, con severità e fermezza, a un punto d’incontro tra sindacati e imprenditori, tra una Democrazia Cristiana da pochi anni orfana di Aldo Moro, timorosa e piegata dall’esito del referendum sull’aborto, e il Partito Socialista di un Craxi ansioso di far diventare l’Italia una nazione “da bere”, come la sua Milano.
Due cose stavano alla radice dell’opera politica di questo fiorentino verace. La prima è che non conosceva solo a menadito la Storia risorgimentale: l’aveva addirittura riscritta liberandola da agiografie, mitizzazioni e storture patriottarde. Perciò sapeva che nella neonata Italia unita fino all’avvento del fascismo le posizioni liberali e quelle riformiste non agirono mai, come in altre parti d’Europa, per fronti radicalmente contrapposti, ma governavano per intese, seppure rappresentando di fronte agli elettori l’uno alternativa di governo dell’altro e viceversa.
Solo in questo modo si era riusciti a tenere insieme tutte le differenze di una terra benedetta dalle individualità più geniali del mondo, dai paesaggi più vari, dalle coscienze più libere: ancora oggi, nulla è cambiato, occorre la medesima forma d’energia per progredire.La seconda è la sua interpretazione eccentrica del suo servizievole impegno per la nazione: non proveniva dalle scuderie dei partiti politici e dunque non cadeva in
Lui stesso diceva: la politica non è una scienza, anche se esiste nelle università: è un’arte.
Per questo, anche noi ne siamo stati rapiti.